Se il Mare Nostrum è russo

Se oggi il generale Haftar, dopo aver consultato i propri sponsor negli Emirati e in Egitto, firmerà gli accordi di Mosca, la Russia avrà vinto la propria battaglia di Lepanto e potrà considerarsi la nuova padrona del Mediterraneo. Ma anche se si dovesse aspettare fino al vertice di Berlino, domenica, il risultato cambierebbe di poco e vedrebbe l’Europa ridotta a fare da notaio di un contratto negoziato altrove, tra due fieri avversari della Ue e dei suoi valori: Putin ed Erdogan.

Certo le anime belle, che in Europa non mancano, potranno compiacersi per la fine di una guerra civile che ha seminato decine di migliaia di morti nel nostro cortile di casa. E le anime meno nobili, che pure abbondano, potranno sperare che i nuovi futuri equilibri in Libia permettano di arginare il flusso dei migranti verso le coste italiane.

Per facilitare questo risultato l’Italia sembra pronta a offrirsi come leader di una missione militare di pace sotto l’egida delle Nazioni Unite che separi i contendenti.

Come la Merkel a suo tempo chiese e ottenne dall’Europa di pagare sei miliardi a Erdogan per fermare il flusso dei profughi siriani verso la Germania, oggi Conte è pronto a chiedere il sostegno e il contributo europeo per una missione che vedrà anche i nostri soldati schierati a difendere in Libia confini decisi da altri, con la recondita speranza di proteggere le nostre frontiere dall’invasione dei barconi.

La mossa della Merkel le salvò la poltrona, ma ha messo l’Europa sotto il ricatto permanente di Erdogan, che minaccia di riaprire le frontiere dell’Egeo. Facile immaginare che la decisione di mandare una forza europea a fare peace-keeping in Libia per conto di Erdogan e Putin non ci metterà al riparo da ulteriori ricatti, né dalle conseguenze di un fallimento politico-diplomatico che non siamo stati capaci di evitare. È chiaro ormai che gli equilibri geostrategici nel Mediterraneo sono cambiati.

Putin ha riempito, prima in Siria e ora in Libia, il vuoto militare e politico lasciato dalla ritirata americana. Una ritirata che è stata gestita da Trump tradendo prima le milizie anti Assad, che sono finite nell’orbita turca, poi i curdi siriani, salvati dall’intervento di Putin che ha fermato i carri di Erdogan, infine abbandonando al proprio destino il governo legittimo di Sarraj per benedire l’offensiva di Haftar sponsorizzata da Mosca. Se l’uscita di scena dell’alleato americano aveva come obiettivo di spiazzare i partner europei e di favorire la Russia, il risultato è stato centrato in pieno. Putin ha vinto la sua battaglia per il predominio del Mediterraneo con uno sforzo militare irrisorio rispetto alla posta in palio. Angela Merkel, con il consueto realismo, lo ha capito subito ed è andata a Mosca per trattare direttamente con lui i tempi e i modi della Conferenza di Berlino. L’obiettivo della Cancelliera è stato di restituire all’Europa un simulacro di ruolo politico nella regione, ma soprattutto di ribadire ancora una volta la centralità della Germania nella Ue. In realtà il fatto che la soluzione della crisi libica arrivi nella capitale tedesca, dopo due vertici fallimentari e concorrenti organizzati dalla Francia e dall’Italia, sottolinea anche le responsabilità di Parigi e di Roma, la cui rivalità per anni ha bloccato l’azione dell’Europa in Libia. Il messaggio che Merkel manda ai partner Ue è che solo la Germania, oggi, riesce a muoversi come stato sovrano facendosi però anche carico di una visione europea complessiva. Francesi e italiani hanno offerto una cattiva imitazione dei manzoniani capponi di Renzo, intenti a beccarsi mentre stanno per essere mangiati. E il tardivo quanto inutile carosello di incontri diplomatici, messo in scena da Conte e Di Maio a esclusivo beneficio dei telegiornali nazionali, dimostra solo che non hanno letto Manzoni.

Andrea Bonanni – la Repubblica – 14 gennaio 2020

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Italia nel pantano libico, non sa scegliere

  • Pubblicato in Esteri

Il Presidente degli Stati Uniti si è pubblicamente avvicinato ad Haftar; quello della Turchia ha addirittura inviato un sostegno militare a Sarraj. Al che Conte e Di Maio — colti alla sprovvista e con l’evidente scopo di non essere del tutto estromessi dai giochi — si sono presentati sulla scena internazionale improvvisandosi come pacieri. E’ credibile l’Italia in questi panni? Editoriale di Paolo Mieli sul Correre della Sera.

Libia, i nostri politici non sanno che pesci prendere

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La sfida tra potenze su Tripoli

La guerra civile libica è diventata un conflitto per procura fra potenze straniere che investe gli interessi nazionali dell'Italia perché chi controlla Tripoli ha in mano i rubinetti delle rotte dell'energia, dei migranti e del terrorismo che attraversano la Penisola.
Se l'accordo di Istanbul sul cessate il fuoco in Libia fra il presidente russo Vladimir Putin e quello turco Recep Tayyp Erdogan - rispettivamente alleati militari del generale Khalifa Haftar e del premier Feyez al-Sarraj - ha reso evidente il desiderio di Mosca e Ankara di insediarsi da protagonisti nel Mediterraneo centrale, snodo strategico fra Europa e Africa, quanto sta avvenendo nelle operazioni belliche sul terreno descrive uno scenario assai più dettagliato. Ecco di che cosa si tratta.
Le milizie di al-Sarraj possono contare su armi e militari della Turchia mentre sul fronte opposto i maggiori contributi bellici alle forze di Haftar arrivano da Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Ciò significa che l'arrivo di soldati turchi in Tripolitania assieme alla presenza di contingenti egiziani in Cirenaica trasforma la Libia nel primo fronte terrestre di scontro armato fra i due schieramenti in lotta per la leadership dell'Islam sunnita: da un lato Turchia-Qatar, dall'altro Emirati-Egitto-Arabia Saudita.
È uno scontro non solo di potere ma soprattutto religioso perché si contrappongono visioni concorrenti dell'Islam sunnita: per Ankara e Doha la Fratellanza musulmana è la più pura espressione dell'Islam politico mentre per Riad-Cairo-Abu Dhabi si tratta di «pericolosi terroristi» il cui intento è «distruggere gli Stati nazionali arabi» per «restituire il potere agli Ottomani».
Questo spiega perché le forze di Haftar hanno esitato fino all'ultimo davanti al cessate il fuoco di Istanbul: Mosca gli chiede di rispettarlo per arrivare ad una divisione della Libia in sfere di influenza con Ankara ma Emirati, Egitto e Arabia Saudita vogliono che vada avanti, occupi Tripoli e sbaragli Sarraj per impedire sul nascere alla Tripolitania di tornare ad essere quanto era fino al 1911: un protettorato ottomano in Nordafrica. I tre leader sunniti alleati Abdel Fattah al-Sisi, Sheik Mohammed e Mohammed bin Salman non vogliono alcun compromesso con Erdogan: né in Libia né altrove.
Ma non è tutto perché il patto militare e marittimo firmato in novembre da Sarraj con Erdogan ha creato una continuità fra acque territoriali libiche e turche che divide in due il Mediterraneo nuocendo ai progetti di sviluppo energetico che accomunano Grecia, Cipro, Israele ed Egitto. Se a ciò aggiungiamo che la Francia sostiene Haftar - da cui punta ad ottenere il controllo della regione meridionale del Fezzan per tutelare i propri interessi in Sahel - ed anche gli Stati Uniti lo preferiscono a Sarraj in chiave anti-terrorismo jihadista - come il recente incontro a Roma fra il generale libico ed un'alta delegazione Usa ha confermato - non è difficile arrivare alla conclusione che Haftar ha alle spalle una sorta di grande coalizione internazionale mentre Sarraj ha solo Erdogan, seppur con il sostegno del facoltoso Qatar. L'Italia, sostenitrice di Sarraj quale unico premier riconosciuto dalla comunità internazionale, ha avuto più occasioni per schierarsi con Haftar ma non lo ha mai fatto. Neanche pochi giorni fa al Cairo quando il ministro degli Esteri Luigi Di Maio non ha firmato con i colleghi di Francia, Egitto, Cipro e Grecia il documento in cui si dichiarava «vuoto e nullo» il patto marittimo-energetico fra Sarraj ed Erdogan.
Il risultato è un isolamento dell'Italia sulla Libia da cui il governo tenta ora di uscire con la scelta del governo - illustrata nell'intervista a Di Maio che pubblichiamo oggi - di sostenere l'invio di una forza di pace europea a Tripoli, con l'avallo dei libici, sul modello di quanto fatto dall'Onu con il contingente «Unifil» nel Sud Libano lungo il confine israelo-libanese. In attesa di sapere quali partner Ue accetteranno di condividere l'iniziativa italiana possono esserci pochi dubbi sul fatto che il risiko di potenze fra Tripoli e Bengasi si sta dimostrando il più difficile test per la difesa dei nostri interessi nazionali da quando, nel 1999, il governo di Massimo D'Alema decise di aderire all'intervento militare della Nato contro la Federazione jugoslava di Slobodan Milosevic per porre fine alla repressione in Kosovo, ponendo le premesse per una nuova stabilità nei Balcani.

Maurizio Molinari – La Stampa – 12 gennaio 2020

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