di Agostino Roncallo
Nel 1989 ero insegnante a Stresa.
Stresa è una località del Lago Maggiore che conserva un’atmosfera che confina con la memoria, quella del turismo primonovecentesco. A quel tempo erano i russi a trovare ristoro sulle sdraio degli eleganti “Les Iles Borromées” e “Regina Palace”. La rivoluzione d’Ottobre era ancora lontana. Ma Stresa è anche una località famosa per il suo centro congressi e fu così che mi inventai promotore di un incontro italo-francese di sociolinguistica e, un anno dopo, del convegno nazionale del Giscel sul parlato e l’ascolto. Quella del Giscel è una sigla che, ai più, evoca il nome di una crema per le mani ma che, nella realtà, significa qualcosa di molto più impegnativo: Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica! Io ne ero entrato a far parte nel 1983, quando ancora ero studente universitario. Erano tempi di grande entusiasmo: sulla pelle bruciava ancora un’educazione liceale fondata sulle fumosità dei Sapegno, dei Salinari, dei Pazzaglia. Si sentiva la necessità di pragmatismo, di analisi più immanenti al discorso letterario: si cercava, in altre parole, la testualità. E le “10 Tesi” sull’educazione linguistica elaborate da Tullio De Mauro, e divenute poi fondamento del Giscel, parevano ben assecondare questo desiderio. Ricordo un fatto curioso e nello stesso tempo significativo: ero entrato a far parte della segreteria nazionale dell’associazione e nessuno, neppure il sottoscritto, se ne era accorto! Tanto forte era la voglia di “fare”, quanto scarsa l’attenzione alle cariche e alla burocrazia.
Torniamo dunque a Stresa. Dopo i due convegni sopra citati era successo un fatto: un gruppo di docenti di Verbania aveva espresso il desiderio di approfondire il tema del linguaggio. Le riunioni avvenivano nella biblioteca di Villa Olimpia, gentilmente messa a disposizione dal Comune: nasceva così il Giscel Piemonte. I primi anni di storia del gruppo erano fatti di ricerche, partecipazione a convegni e seminari, accesi dibattiti. Dell’équipe facevano parte anche Davide Scalmani e Martino Beltrani che avevano contribuito al lavoro di riflessione introducendo temi di carattere filosofico e antropologico, soprattutto in riferimento all’epistemologia della complessità. Per molti di noi, me compreso, fu una scoperta: la possibilità di considerare il linguaggio non solo da un punto di vista strumentale e funzionale ma anche come espressione dell’essere umano, ci affascinava. “Noi non usiamo il linguaggio, viviamo nel linguaggio”: con queste parole amavamo riassumere il nostro pensiero.
La strada intrapresa permetteva di vedere la realtà da una nuova angolazione, un punto di vista che impietosamente metteva a fuoco le debolezza del nostro sistema educativo: nel neopuritanesimo dilagante delle certificazioni di qualità e della deriva aziendalista della scuola italiana, il linguaggio appariva qualcosa di freddo, asettico nella sua oggettività. Potevamo constatare come non vi fosse alcun spazio per gli sguardi e le parole con cui ciascuno di noi, soggettivamente, vede il mondo e interagisce con esso. Scrivemmo allora un articolo dal titolo “Le riforme che stritolano il linguaggio” nel quale si affermava che l’alternanza delle compagini governative lasciava pressoché immutati i problemi dell’educazione al linguaggio, sempre più compressi da logiche imprenditoriali e soffocati dal pernicioso meccanismo prerequisiti-interventi “in entrata”-prestazioni “in uscita”. Con orrore vedevamo i nostri studenti trasformarsi in quelle “macchine banali” di cui parlava Heinz Von Foerster. Naturalmente quell’articolo non poteva accontentare i riformisti e neppure i conservatori: le critiche arrivavano da ogni parte.
Il nostro gruppo iniziava ad essere visto con preoccupazione e quando pubblicammo un articolo per analizzare criticamente le “10 tesi” di De Mauro a trent’anni di distanza dalla loro pubblicazione, le cose peggiorarono drasticamente. In quell’articolo, elaborato da un gruppo di nove persone, si cercava di evidenziare i meriti storici di quel documento ma si diceva anche che, dopo trent’anni, la scuola era cambiata e che, conseguentemente, alcune di quelle “tesi” andavano riviste. L’articolo uscì nonostante il tentativo, da parte di ignoti, di bloccarne la pubblicazione; alcuni mesi dopo, il direttore della rivista responsabile del misfatto mi informò che, avendo ricevuto pressioni “dall’esterno”, non avrebbe in futuro potuto pubblicare più nulla che ci appartenesse.
Era logico chiedersi cosa potesse creare tanto imbarazzo: considerare la soggettività nel linguaggio significa mettere in correlazione gli studi linguistici con quelli antropologici, fatto che si scontra con l’analiticità disciplinare e l’attuale separazione degli studi universitari. Non solo: la frammentazione degli insegnamenti corrisponde ormai oggi ad aree di privilegio (potere, gestione di appalti e commissioni, visibilità, ecc.) che vengono difese tenacemente. Ma in quanti educatori che si pongono come unico obiettivo quello di migliorare la condizione dei ragazzi che studiano, non potevamo tenere in considerazione tutto questo. E ancora oggi, che abbiamo fondato il Centro di Ricerche sul Linguaggio e l’Educazione, riteniamo sia stato giusto così: contribuire senza condizionamenti a far sì che i giovani abbiano una migliore educazione, è questo un buon obiettivo per cui impegnarsi.
Questo libro comprende una serie di racconti-saggio la cui coerenza è assicurata da quella visione antropologica del linguaggio che in tanti anni abbiamo costruito: parlano, questi racconti, delle parole della vita ma anche di come si possa vivere dentro le parole.
6 marzo 2025