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Racconti

Un minuto ancora

di Agostino Roncallo

Vi sono bambini che stanno bene con gli adulti e adulti che stanno bene coi bambini. Essendo, entrambe le specie, assai rare, ancor più raro è che si incontrino. Ma quando accade, gli uni e gli altri vivono un’esperienza difficile da dimenticare. I bambini perché hanno una naturale curiosità per l’ignoto che gli adulti possono incoraggiare con preziose informazioni, gli adulti perché possiedono congelate velleità esplorative che solo i bambini possono risvegliare.

Il mio incontro speciale fu quello con Tommaso, figlio di Marco e Anna, due cari amici. Marco era mio collega di scuola, qui sul Lago Maggiore. Ci vedevamo spesso e avevamo progetti in comune ma, un giorno, lui dovette trasferire la famiglia a Torino e così i nostri incontri si diradarono. Nel frattempo erano nati prima Michela e poi Tommaso. Conobbi i due bambini tempo dopo, quando Marco venne a trovarmi, Tom aveva cinque anni. Ci trovammo subito in sintonia, insieme esplorammo il giardino della mia casa e lui mi fece notare cose che mai avevo notato prima, le verticali linee della corteccia del grande pino biforcuto, il bizzarro disegno dell’edera sul muro posteriore della casa. Preciso nella mia mente è il ricordo di quel giorno. Marco poi emigrò, nomade, in servizio presso ambasciate di paesi lontani, e io rividi Tom quando già aveva undici anni. La Domenica in cui vennero a trovarmi, Marco doveva aiutare la figlia Michela a fare i compiti. Tom mi guardava con aria ironicamente sconsolata, come a dire: ma guarda un po’ questa qui, la domenica, in casa di amici, in una giornata di sole sul lago, a fare i compiti! Gli proposi allora di fare un giro in bicicletta e lui accettò con entusiasmo fin dal mattino, ma fu solo nel pomeriggio avanzato che potemmo salutare il resto della compagnia per procurarci una bici. La affittammo a Carciano di Stresa, era una bicicletta robusta, con freni a disco, che ci faceva sentire sicuri. Io per la verità faticai non poco a capire come funzionasse il cambio ma lui, assai più intuitivo di me su quelle due ruote, mi spiegò tutto il meccanismo.

Raggiungemmo Feriolo di Baveno su strada, poi prendemmo un piccolo sentiero che costeggia il fiume Toce fino a raggiungere Gravellona. Al ritorno risalimmo dalla riva opposta, l’acqua del fiume aveva quella sera riflessi verde smeraldo e le ombre, che si allungavano, contendevano il terreno agli ultimi raggi del sole. La vegetazione mutava aspetto di continuo in quel conflitto di luce e di buio e noi, noi uscivamo abbagliati da un luogo per ripiombare subito dopo nelle tenebre più fonde. In entrambi i casi, vedevamo poco. Sai che bello, disse Tom, se potessimo pedalare dietro il sole? Sì ma… dietro il sole, c’è un mondo senza gente, risposi.

Ne parlammo, affiancando le ruote. Lui pose alcune domande. Perché non dovrebbe esserci gente? Mi chiedi cose di cui non ho risposta Tom ma forse, pensandoci, un motivo lo troviamo. Magari nessuno ha avuto voglia di mettere il naso là dietro. Non ha voluto o non ha potuto? Difficile dirlo ma talvolta, volontà e possibilità vanno a braccetto: si vorrebbe ma qualcuno ci sconsiglia, ci pone un divieto. Il lecito ha un limite. Cosa sarebbe, Tom, cosa sarebbe la nostra vita senza punti di riferimento, senza divieti? Magari di un limite abbiamo sempre bisogno, per sapere che esistiamo; per non perderci come la sabbia sollevata dal vento e portata via, senza una direzione. D’accordo, disse lui, ammettiamone allora l’importanza, in fondo tutte le nostre azioni quotidiane sono limitate: il problema diventa allora capire perché quel confine attrae così tante persone. Non possiamo starcene tranquilli al di qua? Che domande mi fai, proprio tu, che un attimo fa volevi pedalare dietro il sole? Sai, era solo una curiosità, rispose, non è facile resistere al desiderio di sapere.

Proseguimmo in silenzio, tra luce accecante e buio fitto. Tom aveva undici anni. Aveva undici anni ma nel corso di quel dialogo l’età non contava e ognuno aveva imparato qualcosa dall’altro. E in quel silenzio, ne sono sicuro, ognuno di noi pensava alle parole di poco prima. Ogni volta che ho parlato coi bambini, nelle scuole, ho imparato qualcosa. Mentre facevamo ritorno, ricordo di aver pensato alle Isole Fortunate, poi chiamate Canarie dagli spagnoli. Erano isole dalla natura selvaggia che si trovavano oltre le Colonne d’Ercole, oltre Gibilterra, vale a dire oltre quello che era  nell’antichità il mondo conosciuto.  E lo stretto era un varco, o una foce attraverso la quale un mare si riversava nell’oceano. Un mare intero. Certo, il mondo oggi è più vasto ma, a quel tempo, immagino vi fosse una corrente a spingere l’umanità verso quel punto, a risucchiarla, ad attrarla come un magnete verso il divieto. Flotte intere volte a superare il limite del consentito.

Quando arrivammo, ritrovammo Marco e Michela alle prese con interminabili compiti di latino, preoccupati di non averli ancora portati a termine. Noi invece eravamo stanchi, ma contenti. Dopo cena ripartirono per Torino.

Altro tempo è passato, due anni forse o qualcosa di più. Una settimana fa a scuola avevo un’ora di libertà di cui ho approfittato per leggere la mia posta elettronica. Un’operazione quotidiana. Ogni volta si trattava di cancellare decine di messaggi pubblicitari e quel giorno non faceva eccezione. Occorreva però fare attenzione a non cestinare, tra tutti quelli inutili, anche quelli importanti. È cosi che, mentre mi accingevo a farlo, ho visto un messaggio dal soggetto “Tommaso non c’è più”. L’ho aperto immediatamente, il contenuto rifletteva quello che inequivocabilmente il soggetto voleva dire. In forma breve e laconica, probabilmente l’unica possibile, Marco mi informava che Tom era stato investito da un tram, a Torino. Ho collegato questa notizia a quella di cui giornali e televisione parlavano da alcuni giorni: un ragazzino era morto in bicicletta, mentre tornava a casa. Un’automobile, parcheggiata in doppia fila, in un punto pericoloso, aveva aperto la portiera senza curarsi del sopraggiungere di quel ragazzo che era stato sbalzato sui binari proprio mentre passava il tram. L’autista non aveva avuto il tempo di frenare. Non avrei mai pensato che quella notizia, che mi aveva inquietato, potesse riferirsi proprio a Tom. Ma ora, i fatti drammaticamente coincidevano. Quella mattina le ultime ore di lezione sono state difficili, ne ho dovuto spiegare la ragione agli studenti, mi sono scusato.

Due giorni dopo sono partito in treno per Torino, per partecipare ai funerali. Prima, ho però raggiunto il luogo dell’incidente. Il viale era ombreggiato, il traffico regolare, la vita aveva ripreso il suo corso. Accanto a un albero c’erano dei fiori. Pensando a Tom ma anche a Lucia e Luca, protagonisti di quel fatto, mi pare di rivedere quegli attimi. Lucia è trepidante, è a bordo di una Hyundai Veloster e non vede l’ora di essere nei locali di Via Savona per passare il sabato sera con gli amici. Ha 28 anni e da quando è stata assunta come impiegata in un negozio di Via Po, il luogo più “chic” di Torino, la sua vita si è riempita di promesse, di speranze. In auto sono in cinque, lei è seduta sul sedile posteriore, è impaziente ma trovare un parcheggio non è facile, come non lo è mai stato in Via Po. L’amico alla guida parcheggia in sosta vietata, in seconda fila, dietro altre auto anch’esse parcheggiate in quel modo,  le ruote si fermano. Lei, con la rapidità dell’istinto, apre la portiera. Tom è appena uscito dall’oratorio per la scuola di preghiera, conosce bene la strada, sa essere prudente. Vede la Hyundai in seconda fila, vede che, tra l’auto e le rotaie del tram, lo spazio è abbondante. L’imprevisto è quella portiera che si para, improvvisamente, davanti agli occhi. Luca invece è alla guida di un tram della linea 14 dal nome dolce e suadente:“Sirietto”. Il suo turno di lavoro è quasi finito, pensa alla famiglia, al suo rientro a casa. Come tutti i fine settimana Via Po gli appare caotica, le automobili parcheggiate ovunque. Con la coda dell’occhio vede anche lui la Hyundai e una portiera che si apre, come altre volte è avvenuto, sul nostro destino.

Poco lontano c’è un manifesto, un enorme manifesto pubblicitario di una nota casa automobilistica sul quale campeggia lo slogan “L’unica regola è che non ci sono regole”. Il gioco di parole è epocale. Siamo dunque arrivati fin qui, nell’isola dei Ciclopi, il paese selvaggio dove ognuno detta la propria legge? Omero ci aveva messi in guardia. In quel tempo, a pochissimi era riservato il privilegio di oltrepassare il confine del lecito. E chi lo faceva, lo faceva per un bene supremo: la conoscenza. Uno dei primi fu un mio compaesano, il genovese Lanzarotto Maroncello. Fu lui a scoprire le isole Canarie dopo aver superato il confine. Una di esse prese perfino il suo nome, Lanzarote. Lui in verità si era mosso per cercare notizie dei fratelli Vivaldi che erano partiti per un viaggio intorno all’Africa e sarebbero transitati proprio dalle Canarie. Ma come lo avesse saputo, rimane tutt’oggi un mistero. Sta di fatto che in quelle isole visse a lungo. A lui, fu concesso. Ma un’autorizzazione generalizzata, un via libera senza condizioni,  conducono all’annientamento dell’idea stessa di limite. Un pericolo mortale. Pensando alla sua importanza mi domando, per usare le parole di Tom, “non possiamo starcene tranquilli al di qua?”.

La chiesa era stracolma di gente. La commozione, grande. All’uscita cerco Marco e Anna, vorrei salutarli ma, nella baraonda, non ci si trova più e quando raggiungo l’uscita, sono già partiti. Rimango allora a osservare il gran numero di giovani accalcati davanti all’edificio religioso. Due immagini appaiono significative. Uno “skin” vestito di nero, con catene appese ovunque e un’alta cresta gelatinosa sulla testa, abbraccia una ragazza che, con un golfino rosa e una lunga gonna bianca, aveva sembianze di educanda. Con ogni probabilità, nella vita comunemente intesa, i due non si sarebbero neppure degnati di uno sguardo. Qui invece quei due mondi comunicavano, e piangevano. Poco lontano un bullo dal fisico possente, anch’esso vestito di nero, era crollato al suolo. In piedi a consolarlo vi era un ragazzo mingherlino e occhialuto. Egli, vittima di tante angherie, consolava ora il bullo dicendogli “dai Roby cazzo, si va avanti”. Tra i due, era lui il vero adulto. E poi c’era quel “si va avanti”. È la stessa frase che deve aver pensato il colonnello Dax nel finale del film “Paths of glory” di Stanley Kubrick. Quel colonnello era disgustato dalla guerra. Tornando in linea, fu attratto dai rumori provenienti da un’osteria piena di soldati. Attraverso i vetri vide l’oste che presentava sul palco, a un branco di militari vocianti e ubriachi, una spaurita giovane tedesca, da lui definita “preda di guerra”. I militari rivolgevano a lei ogni sorta di volgarità. All’esterno Dax respirò profondamente mentre sul suo volto apparve una smorfia di disgusto. Era davvero disgustato della guerra e di quella umanità. Ma quando la ragazza cominciò a cantare, gli schiamazzi cessarono quasi di colpo e i soldati, vecchi e giovani, ascoltarono la sua canzone triste, poi cominciarono a ripeterne commossi le parole e il canto diventò un solo, corale,  canto. Non importa se quella canzone fosse in lingua tedesca: non c’era più odio, non c’erano più differenze tra gli uomini.  L’espressione del colonnello mutò, la smorfia di disgusto scomparve e quando un ufficiale venne a portargli un ordine di mobilitazione, lui disse solo: “Dia ancora qualche minuto agli uomini”.

Davanti alla chiesa è arrivato nel frattempo un vigile. La cerimonia è finita e il problema è ora quello di ripristinare la circolazione stradale, il traffico ha le sue esigenze. Il vigile si avvicina al gruppo di giovani e con gesti perentori fa segno che tutta l’area antistante l’edificio deve essere al più presto sgombrata. Ma là ci sono quei due ragazzi abbracciati, ci sono quei due ragazzi e c’è anche il bullo che ha ora bisogno della sua vittima, di una sua parola di conforto. Mi avvicino allora al vigile. Mi scusi, gli dico, dia ancora qualche minuto, anche solo un minuto,  ai ragazzi.

“Attraverso i vetri vide l’oste che presentava sul palco, a un branco di militari vocianti e ubriachi, una spaurita giovane tedesca, da lui definita preda di guerra”.

25 marzo 2025

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