di Agostino Roncallo
Quel giorno, lo ricordo bene, era il 5 Giugno 1975. Decisi di tornare negli studi di Abbey Road per ritrovare gli amici di un tempo. Non sapevo in verità se li avrei davvero trovati, pensavo che avrebbero potuto essere in giro per il mondo, per qualche nuovo tour. Dopo il nostro distacco erano diventati famosi e i giornali parlavano di loro pressoché quotidianamente. Ma appena oltrepassai l’ingresso mi accorsi che, sì, i Pink Floyd erano lì, nello studio, intenti alla registrazione di un nuovo disco. Nessuno mi riconobbe. Lo so, ero molto diverso da colui che avevano conosciuto anni prima, adesso ero grasso, e calvo. Il primo a riconoscermi e venirmi incontro fu Andrew, il nostro manager. Come hai fatto a metter su tanti chili?, mi disse. Risposi che in cucina avevo un frigo molto grosso e che avevo mangiato molto maiale. Volevo provocarlo, naturalmente. Poi mi dissero di ascoltare un pezzo che avevano appena registrato, si intitolava Shine On You Crazy Diamond e parlava di un uomo minacciato dalle ombre della notte, soffiato via da una brezza d’acciaio. Prima brillava come il sole, era un giovane e gaudente visionario, poi fu annientato dalla notorietà, i suoi occhi divennero buchi neri nel cielo e la sua persona fu oggetto di risate lontane. Capii subito che parlavano di me. Non dissi nulla però e rimasi ad ascoltare, in silenzio. Poi chiesero di poter riascoltare il brano, si aspettavano che io dicessi qualcosa. Ma io, io non lo volevo rivivere quel passato. Né, lo voglio ora. A quel mondo preferisco quest’ombra, questa nebbia in cui adoro confondermi e adagiarmi, all’infinito. Uno strato di foglie gelide si è depositato sulla mia anima e la ricopre. Fu così che li interruppi e dissi: ma cosa ve ne importa? Non lo avete ascoltato già una volta?
Dopo la seduta in sala di registrazione venni invitato al bar della EMI, si trattava di festeggiare con un brindisi il recente matrimonio di Dave. C’erano ospiti eleganti, personaggi importanti che mai avremmo frequentato al tempo dei nostri esordi. Parlavano di affari, di una prossima tournée del gruppo, di contratti pubblicitari: qualcuno si avvicinò, aveva giacca, cravatta e lineamenti che risvegliarono in me l’immagine del conduttore televisivo di Top of the pops, una trasmissione cui molti anni prima avevo dovuto partecipare. Ma fui costretto, quello era il tempo della mia prigionia. Ricordo che mi presentai per tre volte di seguito con lo stesso vestito, ogni volta più consumato e maleodorante. Il volto di quel conduttore, nella sua volgarità, mi aveva disgustato e mi disgustava ora allo stesso modo. Era davvero lui? Ebbi la sensazione che quella festa fosse popolata da fantasmi, da macabre maschere di un grandguignolesco spettacolo. Volevo fuggire. Un dirigente della casa discografica si avvicinò, io mi ritrassi, mi porse un bicchiere di spumante, ignoro cosa mi stesse dicendo, so che a un certo punto mi misi a ridere sguaiatamente e a fissarlo negli occhi. Iniziai a fissare negli occhi tutta quella gente. Volevo leggere nelle loro pupille, scoprire il loro segreto. E ridevo, ridevo.
Svanii nella notte, senza salutare né gli amici, né i fantasmi di cui ormai erano circondati. Non avrei mai più rivisto i Pink Floyd, ne ero certo. E del resto, nulla avrei potuto fare per salvarli. Un tempo erano forse loro a poter salvare me: ricordo come Rick mi tenesse una mano sulla spalla in occasione di una delle prime sessioni fotografiche. Io non ne volevo sapere, detestavo certe formalità ma quel gesto mi fu di sostegno e incoraggiamento.
I primi ricordi che ho di Dave e Roger risalgono al 1962, avevo a quel tempo sedici anni e la domenica molti amici venivano a trovarmi nella mia casa di Hill Road. Roger lo sentivamo arrivare accompagnato dal rombo della sua motocicletta Ajs: era come se, già a quel tempo, volesse sovrapporre il suo rumore alle nostre voci. Ma non c’erano fantasmi in circolazione e la vita, la vita ci attirava a sé con irresistibili promesse. Passavamo il tempo a suonare e ascoltare dischi. C’era Clive che aveva un gran senso del ritmo e riusciva a utilizzare come percussioni gli oggetti più svariati, ricordo ad esempio il modo in cui percuoteva una scatola di biscotti con coltello e forchetta. C’era poi un cantante, Geoff Mott, che ci propose di costituire un gruppo: data la sua stazza imponente e il suo carisma, l’improvvisata band si chiamò Geoff and the Mottoes. Non suonammo mai in pubblico. Però, ora che ci penso, una volta ci esibimmo, era una festa da ballo mi pare e Roger, che ancora non si sentiva musicista, dipinse un manifesto per pubblicizzare l’evento. Dave neppure suonava con noi, frequentava altre compagnie: io e lui eravamo amici ma ci vedevamo per lo più all’istituto d’arte che entrambi frequentavamo a Cambridge. Una volta decidemmo di fare un viaggio insieme nel sud della Francia, volevamo conoscere Brigitte Bardot ed eravamo convinti di riuscirci. Finimmo invece in carcere perché sorpresi a fare i musicisti di strada in luoghi in cui esibirsi non era consentito.
Passò qualche anno prima che nascessero i Floyd. Molti si interrogarono sull’origine del nome, alcuni dissero trattarsi di una mia allucinazione. Niente di tutto questo. La spiegazione era più prosaica Avevo in casa i dischi di due bluesman a me particolarmente cari, Pink Anderson e Floyd Council. Se avessimo scelto Anderson Council il pubblico avrebbe pensato di trovarsi in presenza di esponenti della camera consigliare di un qualche comune britannico. Dunque, non avevamo scelta, meglio: Pink Floyd. Non c’erano allucinazioni sul mio cammino, non c’era nulla di tutto questo.

“ricordo come Rick mi tenesse una mano sulla spalla in occasione di una delle prime sessioni fotografiche. Io non ne volevo sapere, detestavo certe formalità ma quel gesto mi fu di sostegno e incoraggiamento.”
La mia vita cambiò quando andai ad abitare con Peter e Susie all’ultimo piano della loro casa di Earlham Street. Con me c’era Lindsay, la mia ragazza di allora. I giorni erano specchi di luce. Si dormiva la mattina, poi si andava al Pollo Bar e si giocava a Go. Avevo lasciato la pittura per scrivere canzoni, la mia mente oscillava tra la fantascienza, i racconti di Tolkien, le ballate folk inglesi, il blues di Chicago e poi Donovan, i Beatles e i Rolling Stones. La musica mi piaceva scriverla e suonarla, non pensavo a incidere dischi . Tutto mi riusciva con disinvoltura, senza grande sforzo, le mie canzoni per i Pink Floyd sono nate proprio in quel periodo. Ma non bastava, non bastava. Me lo dicevano creature vestite di bianco che entravano nei miei pensieri attraverso il sottile spiraglio del dormiveglia. Sei un grande ma non abbastanza, dicevano.
Era per cercare una soluzione ai problemi della mia esistenza che andai nel centro di Londra insieme all’amico Storm per incontrare il “maestro”, guru di una filosofia orientale di cui non ricordo il nome. Ma la mia iniziazione venne rifiutata, ero uno studente, mi disse, dovevo prima finire gli studi. Ero deciso a perseguire l’illuminazione con altri mezzi. Il giorno in cui firmammo il primo contratto alla Emi, ebbi la sensazione di vedere nei dirigenti le stesse creature vestite di bianco dei miei sogni. Sei un grande ma non abbastanza, ripetevano.
Finii per aderire a quello che chiamavano “movimento sperimentale per l’espansione della coscienza” che in realtà altro non era che un modo di essere: non dico che non prendessimo l’LSD per piacere personale, ma comunque immaginavamo di farlo per un progresso, per aprire la nostra mente e superare quel limite della conoscenza che soffocava la nostra esistenza. Il giorno in cui passai dall’hascisc all’acido sentii cambiar qualcosa dentro di me. Ero in cima a una montagna e i rami dell’unico albero a pochi metri da me erano fili che fluttuavano nell’aria come tentacoli colorati. Guardai allora in cielo e vidi un giardino di stelle, il prato aveva un blu intenso e i fiori: erano fiori di luna. Volevo distendermi perché quell’erba, quell’erba blu mi attraeva, e disteso vidi una nuvola, aveva il profilo della mia ragazza, e io la chiamavo, la chiamavo. Perché non mi rispondi Lindsay? Perché questo silenzio assordante? Poi improvvisamente i pensieri si trasformarono in suoni e in versi sempre più distinti. Tornai a guardare quel profilo ma la nuvola di colpo si voltò, e quel volto aveva una bocca gigantesca, e voleva divorarmi. Allora chiusi gli occhi. Quando li riaprii, scrissi i versi della canzone Lets’split:
Everything is down
And hound, hound, hound
Tutto sta andando giù
E mi insegue, mi insegue, mi insegue.
Il giorno in cui andai ad abitare al 101 di Cromwell Road fu importante. Era un edificio pieno di gente straordinaria, c’erano pittori, musicisti, e c’era “il ragno” John Esam. Era un hippy così soprannominato perché viveva in una specie di labirinto, una galleria senza finestre ricavata nell’edificio non so come. Aveva su di me un potere ipnotico, è difficile spiegarlo. E poi c’era Scotty, un freak che l’acido lo teneva nel comodino. Avevo notato che tutti gli ospiti della casa rifiutavano qualsiasi bevanda e, se proprio volevano un bicchiere d’acqua, andavano soli e titubanti a prenderla al rubinetto. Scotty infatti l’acido lo metteva dappertutto, credo che anche il mio gatto abbia ricevuto la sua dose. Da parte mia, sapevo la quantità di pastiglie che prendevo ma succedeva che, all’ora del the, gli amici ne facessero scivolare qualcuna nella tazza. Così, senza dirmi niente. Poteva accadere questo anche più volte al giorno e io, io che stavo facendo un viaggio, mi sentivo perduto. Sì perché una meta la vedevo, o almeno immaginavo di vederla ma, non potevo raggiungerla perché la nuova dose mi faceva partire per un nuovo viaggio, diverso dal primo. Il mio pensiero subiva un azzeramento, era una slot machine cui qualcuno aveva violentemente abbassato la leva fino a far comparire simboli nuovi. Ma non si vinceva niente, niente, e io gridavo aiuto ma era un grido che nessuno poteva ascoltare. Forse, assumendo l’acido, chi non possedeva immaginazione poteva aprirsi a nuovi orizzonti, ma la mia mente, che a ciò era già predisposta, andava lontano, lontano, troppo lontano.
Iniziai ad avere fissazioni maniacali. Una mattina volli accompagnare Susie a trovare Peter che era stato ricoverato in un ospedale psichiatrico. Mi feci prestare una macchina antiquata e guidai alla ricerca di questo ospedale che non riuscivo a trovare, mi persi in un dedalo di strade e stradine. Quando finalmente lo raggiungemmo, io mi rifiutai di entrare. Avevo la sensazione che qualcuno mi stesse aspettando e che da quel luogo non sarei più uscito. Cercarono di tranquillizzarmi ma non volevo che qualcuna di quelle ombre si avvicinasse. Andate via, andate via, ripetevo.
Era un periodo in cui ci esibivamo spesso dal vivo, qualche volta suonavamo nella stessa serata in due luoghi diversi. A un concerto ne seguiva un altro. Ma le cose non andavano bene, il pubblico voleva ascoltare le canzoni di maggior successo che dal vivo non eseguivamo mai. Infatti sul palcoscenico io avevo bisogno di sviluppare musica, di esserne avvolto. Si partiva da una melodia essenziale e ciclicamente, a ogni giro di accordi, io inserivo alcune novità fino a quando il pezzo prendeva forma. Alcune esecuzioni potevano durare fino a trenta minuti. Stavo bene sul palcoscenico ma, al di fuori, tutto girava davanti ai miei occhi e i ricordi si fanno sfuocati. Ricordo, la sera di un concerto importante, qualcuno che urlava “In scena! In scena!”. Ma io ero lontano da me stesso, non riuscivo a parlare, fino a che qualcuno mi spinse sul palco dopo avermi messo la chitarra al collo. Stetti così, per un po’, poi mi misi a suonare ma le mie note erano dissonanti, gridate, credo assolutamente lontane da quanto stavano eseguendo i miei compagni. Di loro avevo bisogno ma non ebbi alcun aiuto. Un giorno che avevo fame comprai d’istinto dodici panini e li misi in bocca uno dopo l’altro, interi, le mani erano sporche, la faccia era sporca, e loro gridavano, mi incitavano a continuare. Le loro risa erano di scherno. In un’altra occasione, prima di un concerto, mi fecero entrare in una macchina dove eravamo in tanti, tutti schiacciati, e mi fecero fare un inutile giro della città.
Mi sentivo aggredito, circondato, e l’unico modo di essere che mi facesse sentire vivo era quello trasgressivo: forse delle regole avevo bisogno perché, vivendo nella libertà, non avrei avuto vincoli da spezzare, quindi non avrei avuto modo di costruire la mia identità e ottenere l’attenzione degli altri. Ricordo quando andammo nella villa dei genitori della ragazza di Storm, Libby, per la sua festa di compleanno. Gli austeri genitori avevano organizzato una festa tipica per chi, a Cambridge, fa il suo ingresso nell’alta società. La famiglia e gli ospiti di riguardo erano seduti al banchetto del ricevimento ma fu sul palchetto che accaddero le cose più incredibili. Dave doveva esibirsi col suo gruppo, i Jokers Wild, e dopo di lui sarebbe stato il turno di un certo Paul Simon. Iniziammo a bere alcolici senza un limite e quando fummo sufficientemente sbronzi iniziammo a salire sul palco per suonare. Tutti suonavano con tutti, senza un ordine preciso. A un certo punto ebbi la netta sensazione che a quella festa si fosse creata una divisione tra gente seria e casinisti: noi eravamo i casinisti e facevamo un baccano d’inferno mentre altri si aggiravano impettiti nei loro abiti eleganti. Tutto questo sotto gli occhi del padre di Libby che era un tipo all’antica, uno di quelli che a un discorso della regina in televisione avrebbe costretto con ogni probabilità tutti ad alzarsi in piedi. Decisi allora di entrare in scena con un colpo ad effetto, presi una tovaglia e chiamai tutti a vedere il famoso trucco dei bicchieri. Quando con uno strattone tolsi la tovaglia i bicchieri, che avrebbero dovuto rimanere immobili sul tavolo, volarono dappertutto. Il padrone di casa impallidì mentre la moglie esclamò “Dio mio!”. Poi venni chiamato sul palco per suonare un bis insieme all’amico musicista Ian Moore: io avevo in mano una bottiglia di Gin e ricordo che dopo pochi gradini io e Ian cademmo faccia in terra sul parquet. Forse fu meglio così: non oso pensare cosa avremmo potuto dire se solo fossimo riusciti a impossessarci del microfono. Poi mi accompagnarono a casa in stato confusionale e, non so per quale miracolo, mi dissero che al termine della festa Storm ebbe il permesso di sposare Libby.
Quando penso a tutto questo, quando penso a Lindsay, la mia ragazza, che un giorno chiusi a chiave in camera dopo averla picchiata, ho voglia di piangere e batto i pugni sul tavolo. Di me lei aveva sempre parlato bene. Sei la persona più dolce, più tenera, più in gamba che si possa immaginare, mi aveva detto una volta. Fu lei a pagare il prezzo delle mie condizioni di salute, l’uso dell’acido mi causava eccessi di collera e in quei casi diventavo violento. Una mattina l’amico Peter vide presentarsi a casa sua Lindsay duramente malmenata e non voleva credere che fossi stato io a ridurla in quello stato. Ancora una volta nessuno riuscì a capire le dimensioni del dramma che stavo vivendo. Solo ora provo dolore a ripensare quei giorni, al male che ho fatto. Con la fantasia a volte mi pare di recuperare quel tempo, di riviverlo, e mi vedo arrivare davanti alla casa di Peter, e bussare, e gridare: sono stato io, lo volete capire che sono stato io a picchiarla? Chissà se, dicendo così, si sarebbero preoccupati. Forse, qualcuno sarebbe venuto in mio aiuto. Poi ci fu Gayla. Ci fidanzammo che lei aveva vent’anni, lei era robusta, sapeva difendersi, anche se i miei eccessi d’ira la misero a dura prova. Un giorno, dopo che le tirai addosso una bottiglia di latte, decise di ritornare dai suoi genitori. Ma non riuscivo a stare senza di lei e accettai quando mi propose di lasciare la caotica vita londinese per ritornare a Cambridge e ritrovare un po’ di tranquillità. Ci trasferimmo nel seminterrato a casa di mia madre, che era rimasto tale e quale l’avevo lasciato nel 1964. Ma i fantasmi continuavano a perseguitarmi, Gayla era andata a lavorare in un negozio di mobili, lo stesso in cui lavorava il suo ex fidanzato. Fui preso da una irrefrenabile gelosia, mi convinsi che i due potessero rimettersi assieme e allora la accompagnavo al lavoro tutte le mattine e andavo ad attenderla all’uscita tutte le sere. Talvolta mi nascondevo dietro gli scaffali per spiarla, dovevo capire, osservare, una mia distrazione e poteva succedere ciò che temevo, e allora non potevo, non potevo allontanarmi da lì. A casa mi prendeva il timore, l’inquietudine, e allora dovevo tornare davanti alle vetrine di quel negozio a osservare ancora, a spiare. Quell’ossessione mi spinse ad accettare la proposta di matrimonio caldeggiata da entrambe le famiglie. Ci fu una cena di festeggiamento con i miei genitori e quelli di lei, una situazione terribilmente normale per me. Ripensai che anni prima, con la mia prima fidanzata, mi ero ritrovato in una situazione analoga e che, anche quella volta, fu un trauma. Era proprio quella normalità che, all’epoca, non potevo comprendere. A un certo punto mi alzai da tavola, andai in bagno e mi rasai a zero i capelli, poi tornai a tavola e continuai a mangiare come se niente fosse.
Anche Gayla se ne andò e io, rimasi sempre più solo. Ho avuto tante fidanzate e ogni volta il conflitto tra amore e odio consumava le mie energie. Avevo sì bisogno di una presenza
“Ci fu una cena di festeggiamento con i miei genitori e quelli di lei, una situazione terribilmente normale per me.”

“Talvolta vado al negozio di colori per comprare il materiale del mio prossimo dipinto.”
femminile al mio fianco ma mal tolleravo le intrusioni nella mia esistenza, i tentativi di prendersi cura di me. Lo scrissi in Candy and a current bun:
Don’t go where other you must know why / Very very very frail
Non continuare a cercare di sapere perché / Sono così tanto , tanto , tanto fragile
ma anche in Let’s roll another one:
Ooh don’t talk to me / Please just walk with me / Please, you know I’am feeling frail
Oh non parlarmi / Per piacere cammina soltanto con me / Per piacere, lo sai che mi sento fragile
Ritrovai la serenità dopo aver abbandonato il mondo della musica, quel mondo che mi ha distrutto e che ancora adesso sento bruciare sulla mia pelle. Ora vivo tranquillo e le royalties dei miei dischi sono più che sufficienti per mantenermi: posso uscire di casa per fare la spesa, dipingere, dedicarmi all’orto. Talvolta vado al negozio di colori per comprare il materiale del mio prossimo dipinto.
Certo non posso dirmi al sicuro: spesso vedo individui con aria circospetta aggirarsi davanti a casa mia. Probabilmente sono giornalisti oppure i fantasmi di un tempo, chissà. I giornali hanno fatto di me un mito, descrivendo la mia presunta agonia artistica e spirituale con toni pietistici. Ma sono io ad avere pietà di loro e qualche piccola soddisfazione me la sono presa in occasione delle ultime, inutili, interviste piene di retorica. Io sono lo “scomparso”. Cosa fai, come passi le giornate, mi ha chiesto il fotografo Mick Rock nelle vesti di intervistatore. Sai, sono pieno di polvere e chitarre. L’unica cosa che ho fatto in questi ultimi due anni è stato rilasciare interviste. Devo dire che mi riesce piuttosto bene. Mi è parso interdetto, la mia risposta andava oltre il cliché di un uomo finito. Non ha capito che lo stavo prendendo per i fondelli. Certamente avrei potuto dirgli la verità, che oggi finalmente vivo sereno, ma avrebbe sgranato gli occhi. Io sono colui che chiamano “testamatta” e guai a mettere in crisi questa idea. Potrebbero pensare che sono matto veramente.
21 marzo 2025