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Arte e Cultura

Bagliori nella paura

di Giuliana Bagnasco

Anche il vetro appannato della finestra, con le sagome dei moscerini schiacciati, pareva accentuare quell’atmosfera intrisa di impercettibile stanchezza, di respiri lenti e rassegnati, di sbadigli neppure mascherati, un clima di abbandono, quasi come non ci si dovesse più sforzare, bastava lasciarsi andare così, alla deriva, senza più tentare resistenza. Ma poi, come poter resistere ancora? E perché? In certi istanti anche il corpo sembrava richiedere con insistenza un po’ di tregua, troppe volte sotto la pressione dei farmaci era stato costretto a sussultare, a riprendere quel vigore che invece mollemente, quasi con dolcezza, si stava allontanando. Del resto non aveva lamentato alcun dolore quel corpo quando, dopo la concitazione di quei camici bianchi, era rimasto per ore a subire radiazioni, auscultazioni, verifiche, controlli, non si era neppure risentito per essere stato così ferocemente distolto dal suo torpore, aveva pazientemente sopportato. E quando il viso scuro e teso dell’anziano medico del gruppo aveva sentenziato, rimproverandolo quasi, quel povero corpo per l’eccessiva fatica si era volontariamente narcotizzato in un torpore che sapeva di morte. Non si poteva accusarlo perché qualche oscura cellula impazzita, moltiplicando le sue energie con uno sforzo smisurato, si era diffusa, aveva, solitaria, clandestina staffetta, trovato solidarietà in altre cellule impazzite come lei. No, quel corpo era stato un buon amico, i sussulti di quel sangue adolescente, ardente di vita e d’amore, erano stati così potenti da ubriacarlo di felicità, ma dell’ebbrezza di allora era rimasto solo il sapore amaro degli incantesimi quando finiscono. Sì, erano rimaste delle tracce di quell’ubriacatura di gioventù; dei fremiti del corpo in amore rimanevano scosse che l’animo ancora avvertiva, ma la pelle, insensibile a quei sottili messaggi che la memoria riportava, sembrava diventata pigra e disobbediente.

Erano rimasti a lungo nelle narici i profumi agresti, del fieno appena tagliato, della pioggia sulle zolle rimosse, dei cespugli di menta o del mieloso caprifoglio; poi, con il tempo, non riusciva neppure più il tentativo di chiudere gli occhi tentando l’olfatto per risentirli: Ma allora perché odiarlo adesso, quando si era stancato per essere stato troppo a lungo sollecitato?

Anche la mente pareva intorpidita da quelle giornate così uguali, interrotte soltanto dall’arrivo di pochi parenti o dall’avvicendarsi di mani nervose e distratte, pronte a frugare, come per adempimento di un religioso dovere, nell’intimità di ognuno; così, anche se non riusciva ad odiare il suo corpo perché la costringeva a restare inerte, Anna avvertiva una pena sottile quando pensava al senso di vuoto, di cessazione del tutto che ormai troppo spesso l’assaliva.

Se almeno il suo spirito si fosse arreso, non si fosse più torturato riproponendo spezzoni di un passato carico di emozioni fuggevoli, frammenti di una vita vissuta sempre ai confini dell’esaltazione più sfrenata o della disperazione più intensa, di un mondo gremito non solo di persone ma soprattutto di sensazioni, di immagini. Perché, per una volta almeno, il corpo e lo spirito non decidevano di arrendersi insieme, permettendole di godere quel torpore che al suo essere ormai piaceva tanto, quel senso di illanguidimento che rasentava la beatitudine?

No, la mente continuava i suoi vaneggiamenti, provava ad immaginare se stessa viva sotto altra spoglia, quella pendola ad esempio; scandiva le ore nel corridoio che immetteva nella sua camera, era imponente, di noce, con venature rese scure dal tempo, quasi le rughe d’una vita trascorsa a ricordare con perfidia che il tempo, inesorabile, trascorre; sì, era lì a scandire le prime ore del mattino, ad interrompere il filo di un sogno, a cancellare di colpo un’immagine dell’infanzia.

Quello splendido gioco della contessa-bambina che, quando coinvolgeva la mamma, riusciva a suscitare mille emozioni, un incantesimo sfavillante di colori, di oggetti luccicanti come ornamenti preziosi, bottoni di madreperla, inservibili uncinetti arrugginiti, scarpe enormi dove i piedi, paffutelli e corti, galleggiavano provocandosi escoriazioni e arrossamenti; il fascino era naturalmente esercitato dal ruolo della “nobildonna” in cui una volta la bambina riusciva a non sentirsi in posizione subalterna. Il secco, astioso rintocco, interrompeva, nella pienezza della sua festosità, una corsa nei prati alla ricerca dell’erba brusca, quando Anna, con terribili sforzi, mascherando il disgusto provocato dall’acidità del sapore, riusciva vittoriosa a succhiarla più in fretta di tutti, simulando ghiotta avidità.

Ritornavano alla mente, talora con opachi confini tra fantasia e realtà, gli anni di un’adolescenza vissuta in bilico tra la gloriosa consapevolezza di una raffinata sensibilità, ritenuta prestigioso ed elitario segno di differenziazione, e l’angosciosa solitudine incapace

Di trovare sfogo o alleggerimento, nutrita sì di libri, di bauli di parole ma non filtrate, registrate con impressionante fedeltà su una cartan assorbente che, povera di vagli critici, tutte le assimilava per esacerbare ancora di più il peso dell’isolamento.

Sì, era impietosa quella pendola scura e venata di perfidia se riusciva ad interrompere anche la dolcezza di una rievocazione condotta sul filo della memoria che ricuce il passato e si sforza di comporre nitide immagini, che altrimenti resterebbero nelle nebbie del tempo o nelle profondità del sogno, buio ed enorme ventre in cui si perdono le voci ostili e si respira un’indefinità soavità.

Ma proprio da tali profondità il rintocco richiamava all’odore pungente ed acre dell’ammoniaca, a quello dell’alcool in cui tutti gli altri parevano convergere, a bisbigli di voci, a molesti chiacchiericci, a inutili finzioni e logori rituali che, anche sotto la copertura della legittimazione nobile e doverosa, rivelavano la loro fatuità, beffardi simulacri di una presunta normalità.

Perché non lasciarlo spegnere così, per naturale consunzione, un corpo da anni asservito a una mente invadente, frenetica, quasi maniacale nella mutevolezza dei programmi e degli impulsi trasmessi all’organismo? Ecco, se avesse potuto rivivere come “anima” della pendola, Anna sarebbe stata più conciliante, più discreta, meno fragorosa, più attenta a spiare sui volti gli stati d’animo e capace di non interrompere un sogno, di rallentare talvolta la concitazione degli eventi, di ritardare le scadenze angosciose.

Se ne sarebbe stata in silenzio ad osservare quel via vai di camici bianchi svolazzanti e maldestri, assorti nella ricerca spasmodica di battezzare con termini nuovi malesseri antichi, arroganti nel liquidare gli umili ed impacciati parenti che con soave premurosità portavano pacchi ben confezionati, contenenti logore canottiere o camicie da notte inamidate in tutta fretta, ancora calde di ferro.

Una sera di dicembre, il cielo scarlatto era presago di luminose aurore, Anna avvertì nell’aria un odore di petali spenti, una memoria di fiori appassiti in vecchi libri di liturgia; guardò la pendola che nella luce rossastra metteva a nudo quasi con fierezza le sue venature, sentì, questa volta con fastidio, i sei consueti rintocchi, quando già si mescolavano nell’aria umida gli odori della frutta cotta e del budino, poi più nulla.

16 marzo 2025

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