di Agostino Roncallo
All’albergo Cascata si aspettava mezzanotte per festeggiare il nuovo anno. Era, il 31 Dicembre del 1938. Il maggiore Arnaldo Volla, comandante del battaglione Duca degli Abruzzi[1], intratteneva amabili conversazioni con le signore che erano giunte in mattinata, da Milano. Poi il tempo era improvvisamente peggiorato, si era scatenata una bufera, violenta. La neve batteva contro le vetrate delle sei finestre che si affacciavano sul fondo valle, creava mulinelli, impediva allo sguardo di andare oltre il piano della strada che passava davanti all’albergo. Il transito era interrotto e sarebbe stato necessario attendere la mattina seguente per ripristinare così i contatti con il mondo. Al maggiore pareva di vivere uno splendido isolamento ma non avrebbe saputo dire perché “splendido”. Attraverso i vetri, la mano destra tesa davanti agli occhi nel tentativo di acuire lo sguardo, egli esplorava quel buio.
I partecipanti alla festa erano ignari di ciò che accadeva al di fuori, di quello scatenarsi delle forze della natura. L’ambiente era caldo, un pianista suonava i ballabili più in voga e lo spumante riempiva i bicchieri. Non c’era motivo di preoccuparsi, pensava Volla. All’alba del nuovo anno, si poteva sperare che il giorno si presentasse in compagnia del sole. Si avvicinava spesso al camino per sentire il calore filtrare sulla pelle attraverso i vestiti. Si stava bene in quel luogo e diceva tra sé che solo un matto o un ubriaco avrebbe osato mettere il naso oltre la porta d’ingresso. Ma quella porta, a un certo punto si aprì. Entrarono due alpini e, con loro, entrò la tormenta. Erano completamente bianchi per la neve ghiacciata sul pastrano, sui capelli e sul viso, ed erano legati con una corda di canapa per evitare di smarrirsi, in quel buio. Corrado Zertanna, proprietario dell’albergo, si avvicinò, chiese il motivo di quella visita. Si trattava di trovare un dottore, un alpino si era sentito male nell’accampamento di Furculti e nessuno sapeva cosa fare. Venne chiamato un tenente medico che indossava scarpe da ballo e aveva in mano un bicchiere di Martini. Vai su, con questi soldati, gli disse il maggiore. Il tenente sgranò gli occhi. Vestito così? Qualcuno non può fargli un’iniezione di morfina? Accampò ogni ragione possibile ma non ci fu nulla da fare. Doveva partire. In pochi minuti indossò scarponi e giacca a vento sopra l’abito della festa, venne legato tra i due alpini per evitare di perdersi, e sparì nella tormenta. Nessuno, nel corso della festa si accorse della sua assenza.
Questo episodio, di un tempo così lontano, sarebbe stato certamente dimenticato se non fosse che, alcuni anni fa, uno dei due alpini diede alle stampe la sua testimonianza: si venne così a sapere che l’intervento del medico aveva effettivamente contribuito a salvare quel soldato ammalato e che il giorno dopo lo stesso era stato portato a valle su una lettiga. Si venne a sapere anche, che i due alpini erano scesi dalla montagna nel buio e nella bufera, senza vedere nulla, semplicemente andando verso valle, con la speranza di incontrare un luogo abitato. Il pericolo era di perdersi o, ancor peggio, di finire nelle rapide delle cascate del Toce. Ma a un certo punto videro una luce in quel buio. Per un attimo esitarono, temevano l’inganno degli occhi ma, quando decisero di avvicinarsi ancor più, le loro speranze trovarono conferma: il bagliore era quello delle luci che filtravano dalle vetrate dell’albergo Cascata. Erano le luci di un avamposto della civiltà ai confini di un nuovo mondo, il faro di una lanterna che da lontano avvisa i naviganti della presenza di una terra abitata.
La terra in questo caso era il mondo “di sopra”, quello della Formazza, che le cascate separavano dal mondo “di sotto”, della Valle Antigorio. Era una terra che fino al 1920, l’anno di apertura della strada carrozzabile, era rimasta praticamente inesplorata e, quando gli abitanti dell’adiacente Valle Antigorio ne parlavano al maggiore Volla, dicevano “lassù abitano i Walser”. Quell’affermazione aveva il tono di ineluttabilità che si ritrova nei discorsi destinati a non avere alcun seguito. Come dire: inutile parlare di un qualcosa che non conosciamo e non ci appartiene. Lo spirito esplorativo del maggiore era fortemente attratto da quella popolazione di origine germanica, emigrata nel XIII secolo in quella verde conca che essi chiamavano Pomatt e che oggi chiamiamo, Formazza. Dove gli altri montanari riuscivano a stento a resistere per il breve arco dei mesi estivi, i Walser costruirono villaggi la cui solidità permetteva di sopportare lunghi isolamenti invernali. Il pericolo maggiore era per loro quello delle valanghe che, diceva Volla, cadono dove sono già cadute, dove non sono ancora cadute e dove non cadranno mai più. Un’imprevedibilità capricciosa, spesso fatale, che tuttavia riuscirono a fronteggiare. Quella conca era chiusa da un confine naturale: la cascata del fiume Toce detta anche La Frua, un baratro vertiginoso di 143 metri in cui le acque sorgive del Gries precipitano dopo aver attraversato tranquille i prati del fondo valle. Quel salto era una naturale barriera, uno strappo d’acqua, l’invalicabile muro divisorio che un tempo divideva il mondo civilizzato da quello appartenente a una popolazione di pastori che parlava una lingua sconosciuta.
E lassù, proprio in cima a quella barriera, il 16 Luglio del 1863 venne inaugurato un albergo chiamato Cascata. La civiltà era dunque arrivata fin lì, su quell’immaginario confine, per merito di
“Il bagliore era quello delle luci che filtravano dalle vetrate dell’albergo Cascata. Erano le luci di un avamposto della civiltà ai confini di un nuovo mondo, il faro di una lanterna che da lontano avvisa i naviganti della presenza di una terra abitata.”
“Per assicurarsi una visuale migliore i più spericolati salivano su un pilone di pietra alto quasi due metri che si trovava proprio davanti alla struttura e da lì guardavano il fondo della vallata sotto gli occhi divertiti delle guide.”
Antonio Zertanna. La sua era una famiglia di origine walser i cui componenti, secondo necessità, diventarono nel tempo minatori, commercianti, contrabbandieri, artigiani, pittori, someggiatori attraverso i valichi alpini e, con l’arrivo degli alpinisti, anche guide, portatori e maestri di sci. Antonio interpretò il clima dell’epoca e si convinse che molti esploratori avrebbero desiderato visitare quel luogo, anche se per raggiungerlo dovevano affrontare un’impervia mulattiera. Da qui l’idea di costruire l’albergo e di proporsi come guida alpina. I primi esploratori osservavano stupiti il maestoso paesaggio che si apriva ai loro occhi. Tra questi vi fu un inglese che la notte del 19 Settembre 1878 scese dalle montagne di Bel Alp alla piana di Formazza. Si chiamava Cust, Arthur Cust. Era salito per errore dalla Val Antabbia perdendo molto tempo e finendo per lasciarsi sorprendere dalla notte quando ancora era lontano dalla meta. Cust era un alpinista esperto, non era la prima volta che sfidava il buio, ma quella notte era davvero terribile, la nebbia era così fitta che non si vedeva un passo. Sapeva dell’esistenza di un hotel ma non conosceva i luoghi e aveva la netta sensazione di essersi perso. Ma a un certo punto, intravide una luce oscillare nella piana. C’erano degli uomini e un rumore d’acqua che cresceva sempre più. Quando alzò la lanterna per capire dove si trovava vide davanti a sé, con stupore, la grande facciata dell’albergo. Quando, durante quel capodanno del 1938, Corrado Zertanna vide entrare nell’albergo quei due alpini, ripensò all’episodio che il padre gli aveva raccontato, di quell’inglese apparso come un fantasma nel buio della notte.
Tanti altri raggiunsero l’albergo e ogni volta era un nuovo stupore. Per assicurarsi una visuale migliore i più spericolati salivano su un pilone di pietra alto quasi due metri che si trovava proprio davanti alla struttura e da lì guardavano il fondo della vallata sotto gli occhi divertiti delle guide. Dall’alto, quegli uomini vedevano distintamente il villaggio di Ponte con la sua casa-forte, costruita nel 1569 interamente in muratura, e gli altri villaggi della vallata. Sentivano di aver varcato un confine e provavano quel senso di privilegio che ancora oggi provano coloro che raggiungono le vette più alte. Ai loro sguardi si apriva un territorio sconosciuto e ciò dava loro la sensazione di essere depositari di una qualche verità. Ma c’era anche un altro privilegio: consisteva nel vedere dall’alto il mondo in cui da sempre avevano abitato. Da lassù ogni grandezza diventava infinitamente piccola e il pensiero, il pensiero poteva volare lontano, insieme a quelle nuvole. Proprio per questo, quel capodanno del 1938, Volla cercava nel buio: attraverso i vetri sperava di vedere una luce. Un piccolo punto. Come quello della casa-forte di Ponte che fu parlamento e tribunale, ma anche prigione e magazzino quando il commercio era regolato dalle autorità comunali. Era la simbolica dogana di un tempo, l’ultima tappa prima dell’ingresso nel mondo “di sopra”. Un piccolo punto invisibile, in quella tormenta.
Da quella “dogana” erano transitati molti viaggiatori per andare oltre il limite di una coscienza, che avvertivano povera. Uno di questi era l’abate Antonio Stoppani, autore di un libro che agli inizi del novecento non era meno noto del “Cuore” di De Amicis: il “Bel Paese”. Di questo libro oggi quasi nessuno conserva memoria e, se il volto di Stoppani è oggi ricordato, il merito non è del libro da lui scritto ma di un certo signor Galbani che ai primi del novecento decise di imprimere la sua effigie sull’etichetta di un formaggio, il “Bel Paese” per l’appunto. Quel volto si trovava proprio all’altezza di un’isola, la Sardegna. Chissà se qualcuno ha mai prestato attenzione a quel signorotto dai capelli bianchi e dal volto arcigno che, come si può immaginare, avrebbe desiderato miglior fama.
A leggere le pagine di quel libro, viene da pensare che l’autore sia stato ingiustamente dimenticato. Stoppani era passato davanti alla casa-forte di Ponte nell’Agosto del 1868 e si era diretto con decisione verso la mulattiera che saliva a fianco della cascata, fermandosi spesso ad ammirare quello spettacolo. In cima a quel grande anfiteatro vide un vano, un’intaccatura, come un piccolo canale che un uomo pareva avere inciso con uno scalpello: era il punto esatto in cui il Toce precipitava vorticoso giù dalla rupe. Una rupe che non era esattamente a picco ma leggermente inclinata e divisa in scaglioni, come una scala ciclopica sui cui fianchi crescono alcuni abeti. La cascata vera e propria gli apparve divisa in svariate cascate più piccole: alcune battevano la roccia come un grande fiocco bianco e rimbalzavano in una nuvola di spruzzi, altre si lasciavano scivolare lievemente sulla pietra levigata come un filo di bambagia o un nastro ondeggiante di seta bianca, altre ancora si sparpagliavano disegnando una rete a maglie d’argento. Nell’insieme aveva la sensazione di vedere mille tessuti diversi che di continuo si sciolgono e si ricompongono. Quando poi arrivò in cima a quella rupe, trovò l’albergo e vi entrò per pernottare. I proprietari gli sembrarono gente onesta, trovò anche una compagnia gioviale, fu felice di essere lì. Mangiò con grande appetito, si addormentò al suono della cascata e si svegliò ascoltando la stessa musica solenne, scritta da un artista ignoto. Pensò che fosse quello il motivo per cui il musicista Wagner aveva frequentato quel luogo. Era una mattinata splendida. Era iniziata una sfida. La sfida a Terminus, il dio, la rappresentazione divina del confine.
Fu alcuni anni dopo il viaggio di Stoppani che altri viaggiatori si presentarono con la volontà di oltrepassare la propria regio, che originariamente non significava “regione” ma il punto raggiunto da una linea retta tracciata per terra o in cielo. Era l’inizio del novecento. Un giorno bussò alla porta di quell’albergo un abruzzese che disse di chiamarsi Gabriele, di essere attratto da quel paesaggio e dall’ignoto artista che l’aveva creato. Con lui era una donna elegante e austera, nella cui figura alcuni dissero di riconoscere un’attrice famosa. Quell’uomo si pose di fronte al grande anfiteatro delle cascate. Quelle rocce degradanti gli parevano restituire l’immagine di un colosseo costruito da un titano primordiale, che i secoli e le intemperie avevano certamente segnato ma non al punto da cancellarne l’impronta. Il suo sguardo andò oltre il confine e riconobbe in quel paesaggio frammenti di una scrittura sconosciuta, incomprensibili enigmi della vita e della morte: nelle vene tortuose della pietra intravide l’essenza di un pensiero divino. Pur abitando in Toscana e quindi dovendo affrontare un lungo viaggio, tornò più volte in quell’albergo. Amava in particolare il salone con le sei finestre orientate a valle dalle quali scrutava in lontananza il mondo “di sotto”: la sua preferita era quella a nord, la più vicina alle cascate. Davanti a ogni finestra vi era, e vi è ancor oggi, un tavolino rotondo con due sedie e lui poneva una mano davanti agli occhi per acuire lo sguardo e proteggersi dai raggi del sole.
Osservava in silenzio la valle, lei di fronte lo guardava, lo teneva per mano. Lui, pioniere del volo, era affascinato da quell’aerea prospettiva. Poi, a una cert’ora, quando gli ospiti prendevano posto nella sala da pranzo, lei gli parlava sottovoce, ricordandogli il presente. Si alzavano allora per recarsi in un salone la cui luce tagliente si infrangeva sul cristallo dei bicchieri.
Fu forse la volontà di raggiungere quel confine che incoraggiò la costruzione di una carrozzabile. Nel 1920 arrivarono le prime carrozze e, con fatica, qualche automobile. Arrivarono gli alpini del battaglione Duca degli Abruzzi e la scuola militare di scialpinismo, a Furculti. Passarono gli anni. Polverose corriere si arrampicavano fin lassù, poi fu la volta delle Fiat 600, i cui motori salivano vertiginosamente di giri. I più giovani e ardimentosi arrancavano in Vespa. Quella strada non era meno faticosa della mulattiera di un tempo, saliva con numerosi tornanti tra i pini che spesso, a causa delle valanghe, cadevano sulla carreggiata rendendola inagibile. Anche le dimensioni dell’albergo furono raddoppiate, davanti all’ingresso fu realizzato un porticato con curiose colonne a torchon.
Infine, nel 2008, fu costruita una galleria elicoidale, lunga tre chilometri, che porta direttamente alla conca di Formazza evitando i tornanti più impegnativi. Solo allora compresi che anche la mia Citroen 2CV avrebbe potuto arrivare in quel luogo. Il giorno fatidico la fotografai, parcheggiata proprio davanti all’albergo.
“Quel volto si trovava proprio all’altezza di un’isola, la Sardegna.”
“Solo allora compresi che anche la mia Citroen 2CV avrebbe potuto arrivare in quel luogo. Il giorno fatidico la fotografai, parcheggiata proprio davanti all’albergo.”
Cercai quel pilone sul quale i viaggiatori di un tempo salivano per osservare dall’alto la valle. Non c’era più. Era stato sostituito da una passerella in legno che portava verticalmente sopra la cascata e dalla quale, tra gli spruzzi dell’acqua, si poteva guardare sotto. Famiglie intere gridavano di gioia ed emozione. Entrando nell’albergo chiesi di poter parlare col gestore. Sono io, rispose. Ero in presenza di Fabio Sandretti, il nuovo proprietario dell’albergo. Mostrai la macchina fotografica. Posso fare alcune fotografie ai locali? Mi chiese di seguirlo, mi disse che, sì, quel luogo aveva una storia e tutto sarebbe dovuto rimanere come un tempo. Fotografai la sala da pranzo. Sui muri acquerelli disegnavano greche intorno alle quali volteggiavano farfalle dipinte e anemoni arcaici. Mi mostrò le sei finestre che guardavano a valle e guardai giù, con la mano tesa davanti agli occhi, come quel maggiore che cercava una luce nel buio e una risposta, alle molte domande della vita.
Forse l’attraversamento della linea, il passaggio del punto zero, indicano un punto mediano, non una fine. Oltre il confine un nuovo mondo si apre al nostro sguardo. Nondimeno, è importante che qualcuno vi sia, a presidiare l’avamposto: perché, quando le intemperie sconvolgono la stabilità della nostra esistenza e le certezze franano di fronte all’incomprensibile, abbiamo bisogno di una luce. Di qualcuno che, sia lì, ad attenderci.
Nel salone c’è ancora un vecchio pianoforte a coda: è lo stesso che suonava quel capodanno del 1938, quando due alpini entrarono insieme alla tormenta. Il primo di cordata, era Mario Rigoni Stern. L’altro, il suo amico Arno.
14 marzo 2025
[1] Il Batt. Duca degli Abruzzi fu formato, per l’esigenza di guerra, con personale tratto dalla Scuola Militare Alpina di Aosta (della quale mantenne la nappina). Costituito al comando del ten.col. Arnaldo Volla, viene impiegato sulle Alpi Occidentali e disciolto nel dicembre 1940 cedendo parte del personale al neo-costituito Battaglione Alpini Sciatori “Monte Cervino”, il restante personale rientrò ad Aosta dove contribuì a costituire la locale compagnia presidiaria. Personale: 480 militari di truppa, 50 sottufficiali, 26 ufficiali.