di Patrizia Lazzarin
IL VOLTO, LA MASCHERA, IL SELFIE

L’intensità del volto di Narciso, nella posa e muscolosità simile ad una fiera che si disseta ad una superficie lacustre, nell’arazzo dell’artista Corrado Cagli, appeso nell’ex chiesa del Museo di San Domenico a Forli, ci introduce, quasi catturandoci nei colori di una foresta rigogliosa, alla mostra che aprirà domani al pubblico: Nello specchio di Narciso. Il ritratto dell’artista. Il volto, la maschera, il selfie.
Già nel titolo, ma ancora prima di vedere l’esposizione, sfogliando il grosso catalogo pubblicato da Cimorelli Editore, l’impressione che facciamo nostra è quella che ci attenda una rassegna in grado di offrire molti spunti di riflessione sul significato dell’immagine, sulle sue caratteristiche e come essa, al pari di un’erma bifronte, ci presenti la sua bellezza e pericolosità.
L’artista, in qualità di inventore di immagini, è il protagonista, ma attraverso la rappresentazione di sé e del mondo egli ci conduce attraverso i luoghi e i tempi della Storia. Si attinge al mito, a quello in particolare, narrato in maniera poetica da Ovidio che racconta di un giovane bellissimo, Narciso, figlio del fiume Cefisio e della ninfa dei fiumi Liriope che, innamoratosi della sua effigie riflessa nell’acqua mentre si disseta, nel tentativo di abbracciarla annega. Di lui non rimangono spoglie terrene, ma un narciso a ricordare l’evento luttuoso. In Narciso che, non conosceva la sua immagine prima di essersi specchiato nell’acqua, ritroviamo la figura dell’uomo che si guarda e, attraverso la potenza dell’immagine si interroga, cerca di conoscere.

L’artista attraverso la raffigurazione con cui studia e scopre il mondo, rivendica un ruolo non solo di artigiano, ma uno status intellettuale. L’architetto umanista e filosofo Leon Battista Alberti nel suo trattato De Pictura del 1435, scrisse a questo proposito, ricollegandosi al mito di Narciso: La pittura è il fiore dell’arte; e dipingere è abbracciare con lo sguardo ogni cosa specchiata. Attraverso quindi la metafora di Narciso e dello specchio egli lega l’immagine esteriore alla conoscenza.
Paola Refice, una delle curatrici dell’esposizione spiega quanto accadeva prima: Nel Medioevo non esistono autoritratti. Esistono però, ritratti che l’artista fa di sé stesso all’interno dell’opera. Il pittore, lo scultore, l’architetto o il miniatore erano considerati dei semplici esecutori. Si comprende quindi come le affermazioni contenute nel trattato di Leon Battista Alberti individuino una nuova identità dell’artista.
Attraverso lo specchio che riflette il volto umano, espressione dell’anima e riflesso di Dio, come vedremo nelle opere in mostra, si allude poi ad una serie di allegorie che contrappongono La prudenza, la virtù specchiata alla Vanitas/Veritas. Nella sezione dedicata a questo tema la Bellezza emerge in tutto il suo fascino nell’opera la Venere di Tiziano della Galleria Giorgio Franchetti, alla Ca’ d’Oro.

La curatrice Cristina Acidini, in relazione al tema dello specchio, ha raccontato: “In mostra sono rappresentate le allegorie di segno opposto della Prudenza e della Vanità. La prima è una verità che si scruta allo specchio, meditando scelte caute e assennate, la seconda cerca invece nello specchio la conferma della sua effimera bellezza fisica”.
“Ad acquistar nome”, è il tema di una sezione successiva dell’esposizione, dove l’artista si autorappresenta in scene collettive, come testimone. Lo vediamo, ad esempio, nella Presentazione di Gesù al Tempio, del pittore veneziano Giovanni Bellini. Nel secolo XVI si sviluppa poi l’autoritratto singolo dell’artista, in seguito anche allo sviluppo del genere biografico. Egli appare ora raffigurato frontalmente o di tre quarti per una maggiore profondità, con gli occhi rivolti all’interlocutore. Rivela così la consapevolezza di essere un personaggio riconosciuto nella sua professionalità. Sono frequenti i ritratti di amici, con altri soggetti e di uomini illustri. Ammiriamo in queste sale anche le opere di Sofonisba Anguissola, Pontormo e Lorenzo Lotto.

Nel 1600 si fa strada la rappresentazione dell’artista nel suo ambiente di lavoro. Qui osserviamo autoritratti che sono espressione di un carattere più intimo e personale ed altri dove egli appare pictor doctus, l’intellettuale gentiluomo. Si segnalano, in questa sezione intitolata “Trasfigurazioni dell’artista”, l’Erodiade di Simon Vouet, alcune incisioni di Rembrandt e Artemisia Gentileschi da Palazzo Barberini.
Fra gli autori del secolo dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese si diffonde l’iconografia del pittore al bivio, incerto sul suo futuro percorso artistico ed esistenziale. “L’autoritratto indeciso. Tra il bello ideale e il sentimento del sublime” racconta questo.
Fernando Mazzocca, anche lui curatore, in riferimento all’età moderna spiega: “che con l’aprirsi dell’Ottocento, saranno i due grandi protagonisti della moderna scultura neoclassica, Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen a perseguire … un percorso di autocelebrazione, affidando ai loro ritratti divinizzati, una gloria immortale. … Nei moltissimi autoritratti … sarà Francesco Hayez protagonista del Romanticismo storico italiano, a dimostrare di saper gestire, come pochi altri artisti, la propria immagine, anche nei rapporti con la committenza e il potere”.
In merito al successivo periodo definito fin – de – siécle – Francesco Parisi, un altro curatore, aggiunge: “In questo periplo la morte, il diavolo e la bellezza medusea occupano un posto centrale nell’iconografia simbolista e anche il tema dell’autoritratto si adegua a questa inclinazione … offrendo nuovi spunti di interpretazione, come l’immutabilità tranquilla del teschio, l’artista assorbito nel sogno, l’amore per la morte e la morte stessa”.

Un cambiamento radicale si verificherà nel Novecento prima con la nascita delle Avanguardie e poi, nel clima di ritorno all’ordine, fra le due guerre, quando gli artisti condurranno un’attenta indagine su di essi, in un tempo caratterizzato da scoperte scientifiche e segnato da grandi tragedie. Come in una carrellata, con esiti molto diversi, vediamo scorrere gli autoritratti di Donghi, Guidi, Marussig, Egon Schiele, Domenico Baccarini. Ci sono poi le teste stravaganti di Giacomo Balla, una di esse icona della mostra e i volti, maschere di dolore, di Adolfo Wildt o la maschera di Gino Severini, emblema della commedia umana.
Conclude l’esposizione la sezione “Il Volto e lo sguardo” che testimonia come l’effetto della diffusione delle tecnologie come il cinema, la fotografia e la tv abbiano modificato in maniera radicale, a volte persino dolorosa il rapporto con la propria immagine. Immagini che si moltiplicano rendendo più ardua la ricerca della propria identità anche da parte dell’artista.
L’esposizione rimarrà visibile fino al 29 giugno. Essa presentata ieri in conferenza stampa, è stata promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmio di Forlì e dal Museo Civico San Domenico ed è stata coordinata da Gianfranco Brunelli.
8 marzo 2025