di Giuseppe Priale
Tra le figure di comandanti partigiani che hanno organizzato e condotto la Resistenza sulle montagne delle Alpi Marittime, quella del capitano Piero Cosa mi ha colpito più d’ogni altra e affascinato, soprattutto per la sua vicenda umana prima ancora di quella resistenziale, iniziata con la creazione della Banda della Val Pesio, poi delle Brigate Valle Pesio, Ellero e Maudagna, infine delle Formazioni “R” (Rinnovamento), considerate più autonome politicamente delle Autonome (di Ferruccio Parri) a cui appartenevano, presso le quali godeva di grande prestigio, dopo aver dato prova di elevate doti strategiche e tattiche specie nella cosiddetta Battaglia di Pasqua condotta nell’Alta Val Pesio fra il 7 e il 9 aprile del ’44.
Piero Cosa nacque a Cussanio di Fossano il 1° agosto 1908, settimo di undici figli di Carlo e Maddalena Audino di ascendenze chiusane. Di questi, due morirono in giovane età, alcuni diventarono missionari della Consolata e due si fecero partigiani all’ombra della Certosa di Pesio: Piero e Ottavia. La sorella fu cuoca e vivandiera, ma anche audace patriota insieme all’amica Francesca Gerbotto di San Bartolomeo di Chiusa, diventata in seguito moglie di Piero.

Possiamo dire, però, che si aprì alla vita a Mondovì, dove frequentò per cinque anni la scuola per geometri all’Istituto Baruffi. In seguito prestò servizio militare nel glorioso 1° Reggimento Alpini con il grado di sottotenente di complemento. C’è da pensare, quindi, che abbia guidato il suo plotone, per addestramento alla marcia, attraverso le valli e le montagne del Monregalese, la cui conoscenza gli tornerà molto utile durante la Resistenza. Terminato il servizio militare, dal 1931 al 1940 ricoprì il ruolo di segretario dell’Ingegnere Capo Ercole De Stefanis dell’Ufficio del Genio Civile di Cuneo. Interruppe l’impiego nel 1936 per alcuni mesi, perché richiamato in servizio presso il suo Reggimento in occasione della conquista dell’Impero d’Etiopia, quando l’Inghilterra e la Francia avevano minacciato di intervenire militarmente in difesa del negus neghesti Hailé Selassié, la cui corona imperiale era passata sulla testa dell’inetto Vittorio Emanuele III non all’altezza (nessun riferimento alla sua statura) della difficile situazione italiana del 1922, senza però provocare conseguenze internazionali, né gravi danni economici all’Italia con l’embargo, neppure quando al nostro Re misero in capo nel 1939 anche la corona dell’Albania. (C’è da pensare che il peso di tutte quelle corone gli abbiano fatto venire un gran mal di testa, lui che la testa la usava bene solo a fare il numismatico). Scoppiato il Secondo Conflitto Mondiale, dovette nuovamente lasciare il suo impiego (il più confacente al suo titolo di studio), perché fu richiamato nuovamente in servizio, questa volta, all’8° Reggimento Alpini della Divisione Julia con il grado di tenente e poi di capitano.

Il caso volle che vent’anni dopo anch’io prestassi servizio militare nello stesso Reggimento di stanza a Tolmezzo, ma con il grado di “nullatenente” (soldato semplice), però incarognito per quindici mesi per non averlo fatto da ufficiale di complemento (non ammesso al Corso), come invece era riuscito a fare un mio compagno di collegio (stesso reggimento, per fortuna non la stessa compagnia), davanti al quale alcune volte, con eroica umiltà, mi dovetti mettere pure sull’attenti battendo forte i tacchi e portando con indicibile sforzo la mano alla visiera del cappello da burba, neanche fossi stato davanti al Colonnello Comandante del Reggimento. Il continuo esercizio d’umiltà non servì, però, a farmi diventare emulo del Poverello d’Assisi, perché ero troppo attaccato alla misera paga del soldato, equivalente al costo di una pizza e una birra, che potevo concedermi ogni dieci giorni, se la decade non se n’era già andata in fumo con le sigarette, quelle più economiche, ma più patriottiche: le gloriose Nazionali. Il mio ex-compagno di collegio, invece, fumava Malboro e al sabato andava a cena nel miglior ristorante di Tolmezzo in piacevole compagnia, mentre io non potevo fare altrettanto “per colpa” di mio padre, che nel 1944 era stato condannato al “palo”, per cui io non ero stato ammesso al Corso per Allievi Ufficiali di Complemento (A.U.C). Questo mi fu laconicamente comunicato dal Maresciallo dei Carabinieri di Villanova Mondovì, senza precisare per quale motivo, come se essere messo al “palo” fosse già di per sé un reato. C’è solo da pensare, quindi, che mettersi dalla parte della Resistenza fosse considerato un atto eversivo, un grave e palese atto di opposizione al nuovo regime della Repubblica di Salò, perciò un reato che andava punito in quel modo, affinché servisse da pubblico ammonimento. Infatti, mio padre aggiustava le scarpe dei “ribelli”, ai quali lasciava sentire anche Radio Londra all’apparecchio di casa, requisito insieme al maiale, il più neutrale di tutti. Evidentemente ancora nel 1961 certe “colpe” dei padri venivano pagate anche dai figli, qualora l’informativa dei Carabinieri di allora (registrata comunque in modo incompleto, forse per opportunità) non fosse stata positiva.

A onor del vero devo precisare che, durante la Repubblica di Salò, molte stazioni dei Carabinieri erano sotto il controllo della Guardia Nazionale, che poco alla volta avrebbe dovuto sostituire tutti i corpi di polizia. Se questo probabilmente era già avvenuto alla Stazione dei Carabinieri di Villanova, non sicuramente era avvenuto a quella di Chiusa Pesio, che fin da subito, e neanche troppo nascostamente, si schierò dalla parte della Resistenza, tanto che il benemerito Comandante Aristide Pelissero scrisse nelle sue memorie: “Il 26 giugno una ventina di militi della Guardia Nazionale, armati di mitragliatrici e di bombe a mano, circondavano la caserma dei Carabinieri per arrestarli e fucilarli. Essi, però, approfittando di un momento di distrazione degli assedianti, indossavano abiti civili e riuscivano a fuggire alla cattura e a passare nelle file dei Volontari della Libertà”.
Quindi, per i Carabinieri di Villanova del ’61 la condanna al “palo” era ancora di per sé una pena che anch’io dovevo pagare, a prescindere dalle motivazioni, che oggi non sarebbero sicuramente più valide. C’è da pensare, allora, che il veto dei Carabinieri rimase tale anche per la Commissione che mi escluse dal Corso. Nonostante la “macchia” paterna, risultai però “abile e arruolato” per fare il soldato semplice con la poco invidiabile qualifica di “assaltatore”. Per fortuna mi salvò la pace. Assaltai solo, ogni tanto, una pizza e una birra.
Riprendendo in mano il curriculum di Piero Cosa, veniamo a sapere che partecipò con il grado di capitano alla Campagna d’Albania, durante la quale meritò elogi dai superiori e grande stima dai subalterni, come si evince da un rapporto informativo del 15-17 gennaio 1943, stilato dal gen. Cesare Del Ponte. Poco dopo, però, quando la guerra per l’Italia diventò catastrofica su tutti i fronti, il nostro elogiato e stimato Capitano un giorno si permise di opporsi alle rigide regole della gerarchia militare. Si meritò immediatamente un deferimento al tribunale competente per insubordinazione: aveva autorizzato la distribuzione alla sua Compagnia, ridotta alla fame da alcuni giorni, delle Razioni K, da distribuirsi solo in caso estrema necessità, previa autorizzazione dei superiori, interpellati peraltro già più volte. Solo l’8 settembre ’43, con lo sfacelo dell’esercito italiano, con l’Italia divisa in due e dilaniata dalla guerra civile, poté salvare il capitano Cosa dal tribunale militare e magari dal “soggiorno” in quel di Gaeta, senza escludere eventuali ripercussioni negative sul suo futuro. (Quando si finisce su certi registri, vi si rimane per sempre, se non vengono distrutti). Infatti, non ho capito perché, finita la Resistenza, non rientrò al Genio Civile di Cuneo. Non ho capito perché fu bocciata la sua candidatura (caldeggiata dagli emigrati italiani) a console in Columbia, dove anche lui era emigrato per le “delusioni tremende del dopoguerra”, come scriveva nella lettera ad un amico.
Oggi pochi ricordano chi era Piero Cosa o conoscono la sua vicenda umana, il suo passato militare e resistenziale. A quanto mi risulta, solo San Bartolomeo di Chiusa Pesio lo ricorda con una piazzetta a lui intitolata. Mi auspico che anche Prea e Miroglio, già sedi delle sue formazioni, facciano altrettanto, anche se Cosa meriterebbe un monumento, che onori la memoria di un uomo che non volle mai essere personaggio per ambizione, che non pretese mai cariche prestigiose, che respinse due onorificenze per coerenza ai principi secondo cui concepì la Resistenza. Voleva che non solo le sue formazioni fossero indipendenti dalla politica, ma che tutte le formazioni partigiane mirassero prima di tutto a sconfiggere il Nazifascismo e a far rinascere l’Italia sotto l’ideale bandiera di Giustizia e Libertà, necessarie e indispensabili per rifondare il nostro Paese su basi democratiche. Su questi due sacrosanti principi era in perfetta sintonia con Ferruccio Parri, ma non con il suo Partito d’Azione, che avrebbe dovuto stare fuori dalla Resistenza armata, come tutti gli altri, fino alla vittoria finale.
La Resistenza per Piero Cosa non fu solo un evento armato, fu prima di tutto la risposta ad un imperativo etico, alimentato da una profonda fede in Colui che si serve degli uomini per fare la storia, sia nel bene che nel male, secondo un suo progetto indecifrabile, tenuto nascosto anche agli angeli del cielo. Così, quando l’ora di fare il bene suonò, il Capitano, già deferito al tribunale militare per insubordinazione (in verità proprio per il bene dei suoi soldati) rispose prontamente.
Finita la disastrosa Campagna d’Albania; persa in mare, durante la ritirata, metà della sua compagnia distribuita su due navi, di cui una silurata dagli Anglo-Americani e ritornato a casa in modo rocambolesco, già il 19 settembre ’43 decideva di entrare nella Resistenza armata, quando nel primo pomeriggio di quella domenica vide sollevarsi nel cielo della Bisalta una densa colonna di fumo. Non era una scapita di foglie secche o un fienile che bruciava: era Boves data alle fiamme dai tedeschi per rappresaglia. Era capitato, infatti, che alcuni partigiani, appartenenti alla Banda appena costituita da Ignazio Vian, scesi in paese per far rifornimento di viveri, avevano fatto prigionieri due tedeschi, che stavano armeggiando attorno ad una camionetta rimasta in panne sulla piazza. Nonostante che i prigionieri dopo due giorni fossero stati liberati grazie ai buoni uffici dell’anziano parroco don Giuseppe Bernardi, onde evitare la minacciata rappresaglia, che però arrivò lo stesso e spietata. Furono incendiate trecentocinquanta case. Il parroco, cosparso di benzina, fu bruciato vivo. Furono fucilate venticinque persone, tra cui il giovane viceparroco (23 anni) don Mario Ghibaudo, mentre portava in salvo sotto la tunica il Santissimo Sacramento e, con il carretto, alcune persone anziane. Don Mario, prima di essere fucilato, fu seviziato e, dopo morte, pugnalato in diverse parti del corpo da assatanati luterani agli ordini del maggiore Joachin Peiper.
Nel 1948 un compagno di seminario e di gite in montagna, per ricordare il martirio di don Mario, scrisse un libro intitolato Veste insanguinata, pubblicato anonimo (non più ristampato), forse perché nell’immediato dopoguerra alcune verità e certi giudizi sulla Resistenza potevano dare fastidio ad una certa parte politicamente molto agguerrita e dare delle noie a chi le aveva scritte. Dopo aver letto quel libro al tempo delle scuole medie, non volli più leggere e sentir parlare della Guerra Partigiana, perché ormai avevo preso pienamente coscienza dell’alto prezzo pagato dalla mia famiglia, prima con il Fascismo, poi con la Resistenza. Solo in questi ultimi anni, dopo che le ferite del cuore sono state anestetizzate dal tempo, mi sono riconciliato con essa mediante la lettura, all’inizio anche un po’ distratta, degli Atti del Convegno di Studi nel Centenario della nascita di Piero Cosa. Convegno tenutosi a Chiusa Pesio il 2 agosto 2008 per ricordare e celebrare la figura di un grande comandante partigiano e di un grande uomo, rimasto quasi dimenticato durante gli anni del suo volontario esilio in Columbia. Ritornato in patria dopo ventiquattro anni, richiamato da vecchi amici e dalla nostalgia delle sue montagne, trascorse nell’ombra e nel più dignitoso silenzio il resto della vita. Mi auguro che un giorno qualche scrittore e storico di vaglia, erede di Gian Paolo Pansa, gli sappia dare il posto che si merita nel quadro policromo della Resistenza italiana e sappia mettere in luce la sua vicenda umana, vissuta in pace e in guerra sempre con grande rispetto per Il Sangue dei Vinti e soprattutto per la verità, continuamente minacciata dai seguaci del Menzognero. Mi auguro che sappia magari cogliere anche quei tratti che lo avvicinano, sotto certi aspetti, al Partigiano Johnny, un romanzo veritiero e autobiografico che Beppe Fenoglio ha lasciato incompiuto nel cassetto, forse in attesa che le acque, ancora torbide del dopoguerra, si schiarissero per permettere alla verità sulla Resistenza di venire tutta intera alla luce, ma forse anche in attesa che si dissolvesse quell’aura epica che in passato ha rischiato di far svanire la Resistenza nelle nebbie del mito, l’antenato spurio della storia, genitrice di figli smemorati e maestra sempre di cattivi allievi.
“Il Partigiano Johnny”, pubblicato postumo da Lorenzo Mondo nel 1968 presso Einaudi, è considerato dai critici il più originale e antiretorico romanzo scritto sulla Resistenza, vissuta in prima persona dall’Autore. Johnny, fin dall’inizio della sua avventura partigiana, trova difficoltà ad inserirsi nella prima formazione che trova, quella dei fazzoletti rossi al collo (di sinistra), che ben presto lascerà, perché i comandanti, invece di far scuola di guerriglia a giovani renitenti alla leva e a soldati sbandati dell’esercito italiano, invece di preparare piani strategici con le formazioni di altri colori, fanno scuola di marxismo in sintonia con quei partigiani titini che miravano non solo a cacciare i Nazifascisti, ma anche a unire il Friuli e la Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista di Tito. Così capitò che partigiani di sinistra della Divisione Garibaldi-Natisone sparassero a quelli di destra (fazzoletti azzurri), li infoibassero e tendessero loro imboscate, come quella tesa con l’inganno alla Brigata Osoppo al Porzus, dove vennero trucidati diciassette partigiani di destra, tra cui il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido. Per fortuna da noi non si arrivò a tanto, ma Beppe Fenoglio nel suo romanzo riporta un episodio in cui alcuni azzurri di destra (appartenenti a formazioni autonome a cui Johnny era passato) erano stati disarmati, ma per fortuna senza spargimento di sangue, dai rossi di sinistra, che cercavano, con i commissari politici, di usare la Resistenza per instaurare un regime comunista al posto di quello fascista. Così, saremmo caduti dalla padella nera nella brace rossa insieme alla bandiera di Giustizia e Libertà. Alla fine però, anche se la mitica bandiera non finì nella brace, si afflosciò sul suo ideale pennone, non appena cessò il vento forte della Resistenza.
Sicuramente il Johnny del romanzo si sarebbe trovato in sintonia con il comandante Cosa delle Formazioni “R”, più autonome di quelle Autonome di Ferruccio Parri, operanti nelle Langhe e comandate dal maggiore Enrico Martini (alias Mauri). Il partigiano Johnny, dopo aver cambiato il colore del fazzoletto, non sembra, però, aver trovato ancora la formazione e il comandante giusti. Peccato che il destino non abbia fatto incontrare questi due partigiani, molto simili nel concepire la la Resistenza. Uno combattente sulle colline ai piedi delle quali affondano le radici di entrambi i genitori; l’altro sulle montagne ai piedi delle quali affondano le radici della madre e del suo spirito missionario (in abiti civili e militari), rafforzatosi all’ombra dell’antica Certosa, dove nacque la sua prima formazione partigiana, la Banda della Val Pesio. Entrambi furono colti dall’8 settembre con la divisa di ufficiali di complemento. Ritornati a casa non vissero, però, come topi nelle cantine o alla macchia. Entrambi risposero prontamente all’imperativo del dovere morale, civile e patriottico, convinti che bisognasse non solo liberare l’Italia dal Nazifascismo, ma anche risvegliare il popolo italiano dallo stato comatoso in cui era caduto con vent’anni di dittatura. Beppe Fenoglio e Piero Cosa (alias Bastiàn nella Resistenza), sono molto simili nel concepire il loro partigianato, a volte assai dissenziente con quello concepito da altri. Già il nome di battaglia di Beppe Fenoglio, il largo uso dell’inglese, i numerosi piemontesismi, le frequenti neoformazioni lessicali, morfologiche e sintattiche usati in questo romanzo, danno l’immagine di uno scrittore di “rottura”, totalmente libero nelle forme espressive e nei giudizi, ben diverso da altri oramai fascistizzati, anche nella lingua, in nome del nazionalismo. Rompendo le regole della tradizione linguistica e di regime, Fenoglio sembra voler rendere un esplicito omaggio agli Anglo-Americani liberatori, senza i quali l’Italia e l’Europa non si sarebbero liberate da sole dal Nazifascismo. Piero Cosa sembra quasi essere stato risparmiato dai siluri degli Alleati per poter continuare con essi la guerra di Liberazione. Ben presto, con altri, istituisce il Servizio X, un servizio segreto per prendere contatti con gli Anglo-Americani, allo scopo di ottenere armi, munizioni e viveri per i suoi partigiani, che non disponevano neppure delle famose Razioni K per sopravvivere, costretti a volte ad “arrangiarsi” come potevano. Grazie a lui si ebbero i primi aviolanci nel Cuneese, di uno dei quali io serbo ancora un vivo ricordo visivo, quello fatto sul Pian della Tura in un pomeriggio pieno di sole, ma freddo, di dicembre, mentre noi bambini, usciti dall’asilo sul sagrato della chiesa, ammiravamo estasiati gli enormi “bucaneve” che scendevano lentamente dondolando nel cielo color cobalto.
L’umile e piemontese Bastiàn, nome di battaglia del partigiano Cosa, rivela già da solo la modestia e l’attaccamento del personaggio alle sue origini terragne e richiama nello stesso tempo alla mente il piemontese soprannome Cuntrari, ma in senso buono. Infatti, Cosa era sempre contrario alle cose sbagliate, anzi “ribelle” a tutto ciò che andava contro la giustizia, la libertà e la verità. In questo era sicuramente il più ribelle dei ribelli. Era il più onesto e coraggioso dei partigiani, da lui considerati come figli che le mamme e la Patria avevano messo ai suoi ordini in qualità di Capitano Comandante di partigiani votati ai più alti ideali della Resistenza, i cui gradi erano autentici e il carisma più che meritato. Era un comandante sui generis, fuori del comune. Preferiva mettere a repentaglio la propria vita piuttosto che quella di un altro. Era coraggioso, ma non temerario. Nei suoi piani strategici calcolava sempre che il rischio non superasse mai i benefici. Preferiva la ritirata al massacro, anche se poi ricordato da una lapide con su scritte belle parole. Era consapevole che le sue formazioni, in campo aperto e negli scontri frontali, non potevano di certo competere con un nemico superiore in uomini e mezzi. La sua era la tattica del guerrigliero, del “mordi e fuggi”, senza però mai dar tregua al nemico. Un suo partigiano, Mario Baudino, disse di lui: “Combatteva per senso morale; anteponeva l’etica al furore della guerra. La sua Banda rappresentava un modello di lotta partigiana molto raffinato, duttile, elastico. Piero Cosa era in grado di radunare velocemente i suoi uomini e disperderli con altrettanta rapidità”. Non era un combattente assetato del sangue nemico e di gloria. Si sentiva responsabile della vita dei suoi partigiani. Preferiva restituire alle mamme i loro figli sani e salvi, piuttosto che offrire alla Patria dei figli straziati, lasciati a terra per spregio o impiccati e lasciati appesi ad un palo per monito, senza un Deprofundis dei parenti, senza una spruzzata d’Acqua Santa del prete, né il triste canto di un Miserere.
Solo i poeti riescono ad esprimere tutta l’angoscia che si può provare di fronte allo sfacelo fisico e morale prodotto dalla guerra, come fa Salvatore Quasimodo, ispirandosi al salmo 137:
Alle fronde dei salici
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Ma Giuseppe Ungaretti più ottimisticamente dice: “Solo la poesia può recuperare l’uomo”, quello che, durante le pause della Prima Guerra Mondiale, scriveva brevi e luminose poesie su pezzi di carta di recupero per ritrovare se stesso, ma anche per sentire l’ “essere uomo” dei suoi commilitoni, che in una poesia chiama “fratelli”, usando una parola nuova, pronunciata per la prima volta in una notte sul Carso e percepita come una “fragile foglia” mentre esce dal suo involucro nell’aria “spasimante”, che avvolge scenari di sofferenza e di morte, in cui l’essere vivente per eccellenza non sa più “Se questo è un uomo”, come si chiede Primo Levi, quando esce devastato dal lager di Auschwitz. Ci viene, però, da pensare che lo scrittore ebreo-torinese non sia più riuscito a recuperare il suo “essere uomo”, se nel 1987 si toglie la vita, dopo aver scritto I sommersi e i salvati, quasi in risposta alla domanda espressa nel suo primo libro. Ci viene ancora da pensare che Primo Levi si sia messo nella categoria dei “sommersi”, affondato dall’esperienza distruttiva del lager e dal suo dichiarato ateismo (“C’è Auschwitz, quindi non può esistere Dio”, asserisce in modo perentorio). Al contrario ci viene da credere che Giuseppe Ungaretti sia da mettere nella categoria dei “salvati”, rigenerati dalla poesia, sollevati dalla speranza in Qualcosa che aiuta a sopportare il “male di vivere”, per non naufragare ed essere sommersi dai flutti neri della vita.

La poesia di Quasimodo, oltre che richiamare alla memoria scene realmente vissute da me bambino (la visione di mio padre attaccato al frassino, al posto del palo, per un’intera notte; l’urlo di nonna Caterina di fronte al corpo del figlio riportato alla casa paterna disteso su un carro, un urlo devastante che, per fortuna, io non ho sentito, ma solo raccontatomi da lei, quando una volta le chiesi da quanto tempo soffriva del malanno all’arteria aorta vicino al cuore), mi fa ricordare molti episodi cruenti, tutt’altro che romanzeschi, vissuti in prima persona da Beppe Fenoglio e raccontati in terza con il partigiano Johnny. Questi, nonostante il cambio di formazione (dalla rossa all’azzurra) stenta ancora a trovare quella più a lui soddisfacente. Intanto, come molti altri, da soli o a gruppi, continua a fare la “sua” Resistenza, in modo spesse volte casuale, giorno per giorno, minuto per minuto, senza la visione di un piano strategico generale, senza coordinamento tra le varie forze in campo. Sovente lo vediamo combattere da solo, dopo aver perso uno dopo l’altro i suoi compagni. L’unico scopo è sempre quello di salvarsi la pelle, senza prospettive, quasi sempre alla cieca, senza voglia, però, di passare alla storia con un atto di inutile eroismo. Nonostante tutto, Johnny continua a lottare, anche se scoraggiato, ma mai disperato. Continua a combattere da solo o insieme a pochi altri scarsamente armati come lui, con poche munizioni, con fucili che si inceppano ad ogni momento. Spesso lo vediamo combattere allo scoperto sulle colline prive di vegetazione, disteso nell’erba gelata o in mezzo alla neve. Quando preme inutilmente il grilletto, allora impreca e fa amare riflessioni sulla guerra partigiana fatta in quel modo. Cammina per giornate e notti intere su e giù per le colline delle Langhe con le piaghe ai piedi e lo stomaco vuoto da giorni. A volte si salva per miracolo lasciandosi rotolare a precipizio in un rittano scosceso e cespuglioso o immergendosi nelle acque fredde del Tanaro in periodi tutt’altro che favorevoli ai bagni. Si rifugia in casolari sperduti e aperti ai quattro venti dell’inverno per concedersi qualche ora di sonno che non viene. Anche Biondo, il tenente partigiano che aveva convinto la commissione esaminatrice un po’ perplessa sulla fede politica di Johnny per poterlo ammettere nella formazione dei fazzoletti rossi, la lascerà per quella dei fazzoletti azzurri di Giustizia e Libertà. Ben presto, però, il Biondo, rimasto solo dopo uno scontro con i Nazifascisti, invece di tentare di mettersi in salvo in qualche modo, li affronta faccia a faccia, alla disperata, con ciò che resta nell’ultimo caricatore del fucile mitragliatore e cade crivellato di colpi come uno di quei giovani mazziniani caduti sul Gianicolo nella disperata e vana difesa della Repubblica Romana nel 1849.
La fine del tenente Biondo non è un episodio inventato da Beppe Fenoglio per dare sostanza al suo romanzo, dal momento che le spoglie di un partigiano, con lo stesso nome di battaglia, riposano nel cimitero di Roccadebaldi con il nome di Gino Ghibaudo, morto il 3 marzo 1944 nelle Langhe di Murazzano.
Il romanzo s’interrompe improvvisamente. Johnny sparisce come fosse stato “crivellato” da tutti i suoi dubbi, dalle delusioni per una guerra partigiana che sta volgendo ormai alla fine, ma fra mille incertezze, senza prospettive, né speranze per il futuro dell’Italia. Sparisce all’improvviso, come se non volesse partecipare alla festa finale, agli osanna del 25 aprile. Fenoglio interrompe bruscamente il romanzo forse per non esprimere qualche giudizio negativo molto più esplicito e veritiero di quanto aveva già espresso nella prima stesura del romanzo, lasciato senza la parte conclusiva, che in quei tempi sicuramente non sarebbe stata accetta dall’opinione pubblica dominante. La morte prematura dell’Autore a 41 anni nel 1963, gli evitò probabilmente l’ostracismo letterario e politico, allora di moda, sempre pronto a calare su chi avesse osato dire la verità o esprimere critiche su quel periodo della nostra storia, sicuramente costellata di tante fulgide luci, ma anche di molte luci fatue e da tante ombre. Per fortuna che i vivi non amano rimestare nelle ceneri dei morti, anzi qualcuno arriva anche a mettere ipocritamente qualche fiorellino sul “cenere muto”, già messo, però, a tacere da vivo. Comunque sia, oggi possiamo tranquillamente dire che la guerra del partigiano Johnny non è sicuramente quella condotta dal suo Capo di Divisione, “sempre abbigliato in sobria splendidezza, corretto e gentile”, che durante un periodo di tregua della guerra partigiana, vede passare scortato da una magnifica autocolonna, in posa statuaria e in piedi dentro una nera Alfa Romeo decappottata con una mitragliatrice (magari già rottamata), posizionata minacciosamente sul cofano. Quel Capo non è certo paragonabile a Johnny o a Bastiàn (anche lui Comandante di Divisione, ma ritto sempre sui suoi scarponi militari consumati per il continuo andare per valli e monti delle nostre Alpi), che una volta, per non essere visto dai tedeschi, rimase in pieno inverno per ore incollato ad una rupe con l’acqua gelida che gli scendeva giù per la schiena, beccandosi una lunga e debilitante bronchite, superata però stoicamente sul campo di battaglia, non certo con brodini caldi e calde coperte presso la mamma Maddalena in quel di Cussanio.
Bastiàn e Johnny non erano partigiani da parate, da guerre psicologiche fatte con l’ostentazione di forza e sicurezza solo apparenti. In questo si assomigliavano come fratelli gemelli. Se si fossero trovati insieme a fare la Resistenza sulle Alpi, penso che si sarebbero intesi a meraviglia e che si sarebbero sicuramente stimati. Magari Fenoglio avrebbe dato un altro taglio al suo romanzo e forse avrebbe anche trovato una conclusione adeguata al suo romanzo autobiografico, senza pretendere di fare un’opera storica, ma solo la ricerca di un nuovo percorso letterario costruito su un evento epocale non ancora ben definito dagli storici, rimasti per molto tempo come accecati dalla luce abbagliante proiettata da una certa parte politica sulla Resistenza.
Piero Cosa fu un partigiano coraggioso sulle Alpi con le sue formazioni sempre compatte negli obbiettivi da raggiungere, quanto Johnny lo fu sulle Langhe con sparuti gruppi di partigiani due volte “sbandati”, privi di una strategia generale unitaria, indispensabile per qualsiasi tipo di lotta armata. Non fu, però, mai disperato come ad esempio il Biondo o scoraggiato come Johnny. Fu sostenuto sempre da una grande forza morale, alimentata sopratutto dalla Fede, convinto che Dio alla fine si sarebbe messo anche Lui a combattere dalla parte giusta, come quando guidò la mano del giovinetto Davide, armato solo di una fionda e di un sasso, nel duello contro il gigante Golia. Era un comandante che non mandava mai i suoi ragazzi allo sbaraglio contro il nemico. Sapeva usare l’astuzia, quando la forza e il coraggio non erano sufficienti per riuscire in un’impresa difficile. A tal proposito va ricordata la cosiddetta Battaglia di Pasqua del ’44, che per undici ore condusse in Alta Val Pesio con meno di duecento uomini, ma con grande abilità strategica e tattica, contro un nemico di gran lunga superiore per uomini e mezzi, affrontato lontano da luoghi abitati, per non coinvolgere i civili e i loro beni e per evitare un’altra rappresaglia come quella di Boves. In quell’occasione, ritenuta improponibile la lotta ad oltranza, ma avendo sconvolto i piani operativi studiati a lungo dai “maestri” della guerra per annientare la Resistenza nelle Valli del Monregalese, il comandante Cosa, ad un certo punto, diede ordine ai suoi uomini di ritirarsi e poi disperdersi separatamente verso la pianura, vanificando in tal modo il piano messo in atto per annientare, con un rastrellamento a vasto raggio, la sua Banda, sempre pronta però a ricostituirsi integralmente, secondo i tempi e i modi da lui stabiliti in precedenza. Amava i suoi ragazzi come sa amare i suoi figli un buon padre. Sapeva anche essere severo con quelli un po’ scapestrati, meritevoli magari di qualche scapaccione o di una pedatina correttiva al “fondo del sacco” (data forse solo con lo scopo di ridurre la distanza tra superiore e inferiore), quando lo ius corrigendi del buon padre di famiglia era ancora in auge. “Malgrado quella sua apparente aria burbera e severa, riusciva ad accattivarsi la simpatia di tutti, perché era indiscutibilmente umano e giusto”, ha detto di lui Aldo Sacchetti, comandante della 3ª Divisione Alpi. Solo una volta, avendo dovuto abbandonare una posizione ormai diventata indifendibile, si permise un piccolo “colpo di teatro”, anche se era contrario per carattere ad atteggiamenti istrionici, lasciando un cartello con su scritto il beffardo monito “Tanto la guerra la perderete lo stesso”. Sapeva mettere in atto audaci colpi di mano, usando il fattore sorpresa e l’astuzia, come quando trafugò ai tedeschi sessanta fusti di benzina all’aeroporto di Mondovì, magari con la complicità della vigilanza “distratta” di mio zio Fedele, da poco rientrato al suo reparto dall’isola di Rodi conquistata dagli Alleati; come quando, con l’aiuto di altre bande, distrusse completamente il silurificio San Giorgio di Pistoia, appena traslocato a Beinette. Era un combattente leale. Non voleva le stragi per vendetta o ritorsione. Non fu mai assetato di sangue del nemico. Rispettava i prigionieri, non estorceva loro informazioni con sevizie e torture: li usava principalmente come “merce di scambio”. Ma se nei continui spostamenti erano d’impaccio, preferiva liberarli. Una volta arrivò persino a proibire ai suoi uomini di sparare su una colonna della Guardia Nazionale, che incautamente saliva per una stretta gola (una delle tante che sfociano sul Pian delle Gorre, che sarebbe più giusto etimologicamente e orograficamente chiamare Pian delle Gole), tenuta sotto controllo da entrambi i versanti dalle mitragliatrici dei suoi ragazzi, intimando a gran voce ai giovani militi, terrorizzati e stupefatti, di ritornare indietro, se non volevano essere annientati. Sicuramente in quel momento avrà pensato che anch’essi erano figli di mamma. Avrà pensato che quei ragazzi, essendosi trovati ad un bivio della vita, avevano preso la strada sbagliata, per cui non dovevano essere annientati con tanta facilità, senza il minimo scrupolo. Soprattutto non voleva spargere sangue italiano con una strage cosi “a buon mercato”. Faceva la guerra per dovere morale, non per odio contro il nemico. Infatti, definiva la guerra “la medaglia della sconfitta umana”.
Se in altre formazioni le spie o presunte tali, potevano finire facilmente al muro o in una foiba dopo aver subito, magari, ignobili trattamenti e senza un regolare processo, nelle formazioni di Piero Cosa non risulta che queste cose siano successe, dal momento che funzionava un tribunale partigiano, presieduto dall’amico fraterno avv. Dino Giacosa, “noto nella storia della Resistenza piemontese come giudice coscienzioso e di estrema rettitudine”, come ebbe a dire don Aldo Benevelli durante il Convegno. A questo proposito voglio ricordare una scena a cui io, bambino di quattro anni, ho assistito in compagnia di mio padre dentro l’osteria Tripoli di Prea. Alcuni partigiani attorniavano una ragazza bruna che urlava e piangeva disperata, strattonata per i capelli e con una pistola puntata alla tempia, tanto da richiamare il Capo della Brigata Vall’Ellero dalla sede posta a due passi dall’osteria. Ricordo nitidamente l’ordine perentorio rivolto dal Capo al partigiano che puntava la pistola: “Partigiano Poma, metta giù quell’arma”. La ragazza, sospettata di essere una spia per il semplice fatto che era la morosa di un milite della Guardia Nazionale di stanza a Roccaforte, fu immediatamente liberata. Dopo la guerra si sposò con quel milite, accanto al quale ora riposa nel cimitero di Prea. Peccato che io non venni mai a sapere il nome di quel Capo, che con quel gesto fece vincere la giustizia e permise alla pietà, uno dei sette doni dello Spirito Santo, di riportare una bella vittoria sull’odio, uno dei peggiori doni del Maligno. Non venni mai a sapere se quel Capo fosse Piero Cosa o un altro che aveva recepito l’etica della sua scuola partigiana. Così pure non venni mai a saper quale santo (partigiano) sia intervenuto, al posto di blocco dei partigiani, a togliere dal muro mio zio Fedele, che incautamente in divisa di militare dell’Aviazione era andato a recuperare, dalla parrocchiale di Miroglio, la salma di mio padre, ucciso sulla montagna dei Bergamini durante il massiccio rastrellamento effettuato nelle Valli del Monregalese nel dicembre del ’44. Anche quella notte vinse la pietà di qualcuno di cui lo zio non ha mai saputo il nome, ma ricordava molto bene il volto del partigiano inferocito che lo voleva fucilare lì su due piedi e con il quale alcuni anni dopo, incontratolo a Mondovì in un sabato di mercato, per poco non venne pesantemente alle mani.
Il comandante Cosa (senza voler fare paragoni con il Giulio Cesare auto celebrativo del suo De Bello Gallico) era sempre il primo ad entrare in combattimento, il primo ad esporsi al pericolo, l’ultimo a ritirarsi, l’ultimo a dissetarsi ad una fonte dopo una estenuante marcia e a prendere il cibo, che non era mai abbondante e certe volte mancava del tutto. Per questo era molto amato dai suoi ragazzi della Resistenza, come altrettanto fu amato dai soldati della sua compagnia durante la Campagna d’Albania. Era amato e stimato anche da tutta la gente che lo conosceva, specie da quella della sua Valle Pesio, che non gli fece mai mancare aiuti e protezione. Quando era costretto a requisire qualche animale per dar da mangiare ai suoi uomini, se disponeva di denaro, arrivava a pagarli anche il doppio del valore, perché non voleva passare per un “partigiano ruba-galline”, come spesso nel dopoguerra, neanche tanto per celia, veniva qualificato qualche partigiano. Il furto per necessità era ancora per lui un’appropriazione indebita. Preferiva mendicare, piuttosto che rubare. Infatti, una volta cacciò dalle sue file un giovane che, per arrivare in tempo al reparto, aveva “requisito” la bicicletta ad un cantoniere che lavorava lungo la strada. Non esitava ad allontanare, senza tanti complimenti, sedicenti comandanti mandati dall’alto a sostituirlo, oppure certi commissari venuti nelle sue formazioni a carpire la buona fede dei suoi ragazzi facendo politica, convinto, com’era, che essa portava solo alla divisione tra le forze in campo e quindi all’indebolimento della Resistenza, allo stesso modo in cui oggi si assiste all’indebolimento della Giustizia, da quando la Magistratura, specie quella di alto livello, è stata investita dalla mala-aria delle correnti politiche, in cui certi giudici sono arrivati a “spararsi” tra loro a colpi di chat infamanti e di sentenze ignobili, a tendersi agguati con raffiche di dossier creati ad arte per far carriera a scapito di altri più onesti o più “autonomi”. Così è finita l’indipendenza e la separazione dei tre poteri dello stato democratico (legislativo, esecutivo e giudiziario) con buona pace di Messieur de Tocqueville che lo aveva già teorizzato nella prima metà dell’800. Oggi la bilancia della Giustizia sembra sempre più a quella truccata del celtico Brenno (e poi ancora falsata con il peso della sua spada) usata per pesare l’oro che Roma nel 390 a.C. gli doveva per il suo riscatto. Ancor oggi Roma continua a pagare il prezzo della mala giustizia dovuta principalmente alla commistione tra i tre poteri, anche se la giustizia perfetta non può essere di questo mondo. Da allora altri Brenno sono calati sulla Città Eterna per esercitare il mal governo e con l’unico scopo di depredarla. Per Piero Cosa occorreva, quindi, prima di tutto la massima coesione per portare vittoriosamente a termine la lotta contro il Nazifascismo. Solo in seguito, con il confronto politico tra i partiti, si sarebbe ristabilita nelle istituzioni la democrazia, la più bella forma di governo, ma anche la più fragile, se trattata con poco rispetto. Se poi nasce già debole di Costituzione come la nostra, può diventare, senza “cani da guardia”, facile preda dei “poppatori” del potere in continua lotta fra di loro, desiderosi solo di sostituirsi ai due litigiosi Gemelli Romani, attaccati famelici alle poppe di Mamma Roma, una Lupa ormai ridotta in uno stato da far pena. Così, l’emblema di Roma antica può essere preso, fuori dal mito e a più forte ragione, anche per la Roma odierna.
Piero Cosa, che durante la Resistenza aveva creduto nella Rinascita e nel Rinnovamento dell’Italia, rimase deluso dai risultati, ben lontani da quelli da lui sperati. Preferì, allora, nell’immediato dopoguerra vivere nell’ombra e poi esiliarsi in terre lontane. Preferì stare lontano dalle celebrazioni, specialmente dalle autocelebrazioni di sedicenti partigiani dell’ultima ora. Preferì non partecipare alle lotte per il potere e per la conquista di un posto di prestigio, magari mendicato alla porta di un partito o di un politico. Profondamente religioso, nelle sue formazioni accolse volentieri anche tre giovani “partigiani di Cristo”, due già consacrati dal crisma sacerdotale e uno che lo sarà nel ‘48: don Pietro Servetti di Roccaforte, don Giuseppe Bruno di Frabosa Sottana e il ventenne, di Azione Cattolica, Aldo Benevelli di Monforte d’Alba, promotore con lui e Dino Giacosa del Servizio X, il servizio segreto delle sue Formazioni “R”.
Don Bruno nel luglio del ’44 ebbe l’idea di stampare clandestinamente un foglio d’informazione per i patrioti del Cuneese con il titolo di Rinascita d’Italia, utilizzando una piccola e vecchia macchina tipografica (chiamata scherzosamente La pedalina, benché fosse azionata a manovella), che dal Borgato di Mondovì aveva trasportato per sicurezza presso il Santuario di Santa Lucia di Villanova, dove il giovane prete “ufficialmente” teneva corsi di Esercizi Spirituali, in realtà per stampare quel foglio che aveva lo scopo di diffondere, tra i combattenti per la Libertà, l’idea di unità tra le formazioni partigiane e del rinnovamento dell’Italia, a sostegno di quanto Piero Cosa voleva conseguire con le sue Formazioni “R” all’interno della 3ª e 5ª Divisione Alpi. La pedalina, anche senza pedali, divenne itinerante per motivi sempre di sicurezza. Soggiornò a Rastello di Roccaforte, salì a dorso di mulo fin sulla Tura e sistemata nel Rifugio Mettolo Castellino, dato in seguito alle fiamme dai tedeschi insieme a tutti i rifugi e le baite delle Alte Valli Monregalesi durante il massiccio rastrellamento del dicembre del ’44. Discesa al piano per svernare a Lurisia presso il Comando della 3^ Divisione Alpi, con il cambio di proprietà si lasciò, suo malgrado, “politicizzare” e coinvolgere in polemiche lontane dalla linea data da don Bruno e condivisa da Piero Cosa. Finì la sua eroica attività resistenziale dentro una fossa scavata ai piedi del Morté (una montagnola, dal nome infausto, fra Lurisia e Chiusa Pesio), per non cadere in mano dei tedeschi. Chissà se la piccola e vecchia stampatrice è ancora in quella fossa, divorata dai vermi della ruggine. Chissà se sarà stata riesumata e, ripulita per bene, degnamente sistemata in qualche museo della Resistenza per ricordare il suo glorioso passato, ma anche il bel sogno, ben presto svanito, di far rinascere e rinnovare il nostro Paese. Chissà se, invece, sarà finita in un oscuro scantinato, ricoperta da un triste velo di ragnatele e dimenticata da tutti, come molti sono finiti dopo la Resistenza. Oramai La pedalina non “pedala” più per arrivare alla Rinascita d’Italia: quelli che ci hanno provato, hanno fallito. Ma noi continuiamo a sperare, ad aspettare che almeno arrivino tempi migliori, se mai arriveranno. Ciononostante, ogni fine anno, ci auguriamo a vicenda che l’anno nuovo sia migliore di quello passato, sempre in attesa di qualcosa o di qualcuno che venga a farci star meglio. Intanto il tempo passa inesorabile e ci consuma nel corpo e nella mente. Fortunato chi spera o crede nell’Aldilà. Infelice chi aspetta con angoscia quel Nulla Eterno concepito da un certo poeta che aveva una visione piuttosto fosca della vita presente e nessuna speranza per quella futura.
Finita la Resistenza, Piero Cosa non passò subito alla cassa a riscuotere la meritata “paga”, come fecero tanti. La sua prima preoccupazione fu quella di far costruire nel 1946 nei pressi della Certosa, da cui era partita la sua avventura resistenziale, un cimitero-mausoleo per dare degna sepoltura a 239 partigiani delle sue Formazioni “R”, le cui salme non erano state recuperate dalle rispettive famiglie. Voleva tramandare il loro ricordo in modo durevole quanto la pietra usata per costruirlo e per esprimere imperitura riconoscenza per coloro che, nel momento della scelta, non sbagliarono strada, né scelsero la via comoda della neutralità o peggio dell’indifferenza, ma scelsero quella impervia della Libertà, la sola percorribile per arrivare alla Rinascita e il Rinnovamento del Paese.
La sua seconda preoccupazione fu quella di istituire un suo personale Ufficio di Assistenza Partigiana “Gruppo Cosa” per il disbrigo di pratiche concernenti caduti, mutilati, orfani e vedove, per trovare un lavoro, un impiego per coloro che, per il bene comune, avevano messo a repentaglio la vita, avevano sopportato difficoltà e sofferenze, subìto ferite e amputazioni anche per coloro che erano stati a guardare dalla finestra o dalla griglia di un tombino o dall’estero. Prima di pensare a se stesso, in guerra e in pace, pensava sempre agli altri: prima ai suoi soldati, in seguito ai suoi partigiani, considerati e trattati come se fossero suoi figli, a volte anche severamente, ma sempre con giustizia e con amore paterno. Durante la guerra e poi nella Resistenza si sentì sempre responsabile della loro sorte. Evitava, perciò, le azioni belliche sconsiderate o temerarie dall’esito incerto. Preferiva consegnare alle mamme o alle mogli figli e mariti vivi, invece di medaglie al valore non più appuntabili al petto. Era amato dai suoi partigiani, anche se avevano ricevuto una rampogna o magari un sacrosanto scapaccione. La sua autorità non gli veniva dal grado di capitano, che non esibiva, ma dalla sua autorevole modestia, già rivelata dal suo stesso nome di battaglia Bastiàn, che sa più di terra nostra che di guerra, per nulla aggressivo come ad esempio Lupo, Falco, Ercole ecc., forse passati alla storia con meno meriti o per essere stati partigiani solo di nome.
Finita in modo inglorioso la guerra voluta dal Fascismo per mania di grandezza, finita, però, vittoriosamente la Resistenza per volontà di singoli individui e grazie anche all’aiuto determinante degli Anglo-Americani, Piero Cosa avrebbe strameritato di ritornare al suo impiego al Genio Civile di Cuneo. Invece il suo posto da segretario dell’Ingegnere Capo non era più disponibile: magari era stato occupato da un imboscato o da un raccomandato della politica o dei partiti, quelli che lui non aveva voluto che entrassero nelle sue formazioni, perché ritenuti da lui un grave ostacolo per conseguire la vittoria finale. Con questo non si deve credere che fosse un apolitico. Infatti, in occasione dell’Assemblea Costituente, accettò di far parte, come indipendente, della lista Concentrazione Democratica Repubblicana, capeggiata da Ferruccio Parri, nella Circoscrizione del Piemonte Sud. Ma nelle elezioni comunali revocò la sua candidatura nelle liste della Democrazia Cristiana a Fossano e a Chiusa Pesio, per non entrare in competizione con alcuni suoi partigiani, ai quali non voleva sottrarre dei voti con la presenza del suo nome, a quei tempi molto celebrato. Con questo suo altruismo si precluse, però, anche la possibilità di avere un futuro politico, che sicuramente avrebbe inteso come vero servizio e non come un tornaconto personale. Scrisse di lui don Aldo Benevelli: “Non accettò vanterie, nastrini; rifiutò oro in medaglie di guerra schermendosi perché doveroso servizio al riscatto della sua terra”. Grazie a lui e al suo Sevizio X si ebbero i primi aviolanci in Alta Val Pesio da parte degli Anglo-Americani, con i quali aveva stabilito una efficiente rete di contatti. Tanto che il gen. Alexander, Comandante Supremo delle Forze Alleate in Italia, gli conferì il Certificato di Patriota per il suo contributo “validamente dato alla liberazione dell’Italia e alla causa di tutti gli uomini liberi”. Il capitano Cosa era, però, un comandante atipico, che forse non avrebbe fatto una gran carriera nell’esercito, né tanto meno in politica, perché troppo granitico nella sua struttura morale, contrario, quindi, ai compromessi e agli intrallazzi. Era, insomma, veramente un Bastiàn Cuntrari, quando ad andarci di mezzo era l’etica dell’uomo probo, del credente (non fariseo) e del Buon Samaritano. Amava servire, non essere servito. Non usava gli altri per dar gloria a se stesso. Durante la guerra in Albania e la Resistenza non cercò mai di guadagnare decorazioni o encomi con il sangue altrui. In situazioni pericolose era il primo ad esporsi. Osava mendicare per gli altri, mai per sé stesso. Purtroppo, se le porte si aprivano anche spontaneamente per gli altri, non si aprirono per lui, forse perché la sua presenza era ritenuta scomoda dai “padroni della Resistenza”. Quando inoltrò al Ministero competente la pratica per ottenere il riconoscimento giuridico ed economico per il periodo del partigianato, non ottenne il giusto riconoscimento.
Finita la Resistenza, rimase fortemente deluso nel constatare che la Liberazione dell’Italia dalla dittatura e dallo straniero non aveva ancora garantito la vera giustizia e la vera libertà. Quando si rese conto che il Rinnovamento e la Rinascita tardavano ad arrivare, decise nel 1955 di emigrare con la famiglia ed il fratello minore in Colombia, appoggiandosi ai Missionari della Consolata di Florencia. In questa città gestì un distributore di benzina fino al 1962, esercitando nello stesso tempo la professione di geometra e l’attività di volontariato nell’amministrazione di una scuola e della vastissima diocesi, di cui era vescovo il missionario della Consolata il monregalese mons. Lino Cuniberti. L’anno dopo si trasferì a Bogotà, per continuare la sua professione di geometra a sostegno dei numerosi operai e imprenditori italiani immigrati in quella città, che in quegli anni era in pieno boom edilizio ed economico, come d’altronde il resto del Paese. Ben presto, però, dovette lasciare la Capitale, perché la suocera pativa l’altitudine (2640 s.l.m.). Si trasferì, allora, a Calì dove aprì una fabbrica di manufatti in cemento. Il 30 settembre 1964 ricevette la notizia che il Ministro della Difesa lo aveva insignito della Croce al Merito “per i sacrifici sopportati durante l’attività partigiana”. Ma ricordando che ai suoi partigiani aveva detto di non mirare a nessuna onorificenza mettendosi a servizio della Patria, pregava la sorella Anna, residente a Fossano, di restituire i brevetti e l’insegna metallica di cui era depositaria. Con una lettera al Distretto Militare di Cuneo precisava che la rinuncia era dettata da “ragioni di principio, maturata durante la lotta di Liberazione Nazionale ed in obbedienza ad un preciso impegno morale” preso con i suoi ragazzi. A Calì non tardò a prendere contatto con la numerosa comunità italiana, composta da alcune persone che già conosceva e da qualche commilitone dell’ 8° Reggimento Alpini della Julia. Alla morte del console, la comunità italiana, che aveva avuto modo di conoscere le sue qualità e il suo spirito “missionario”, lo elesse console onorario, con la speranza che la nomina venisse ufficializzata dal Ministro degli Esteri. Ma, per i soliti giochi politici e scambi di favori, la sua candidatura cadde nel vuoto, pur essendo la persona più meritevole e degna a ricoprire quel ruolo (Purtroppo i debiti di riconoscenza sono tra quelli che presto cadono in prescrizione).
Alla fine vendette la fabbrica, anche perché alcuni imprenditori italiani gli avevano chiesto di allestire e organizzare sul posto dei magazzini per le loro aziende. Assolto tale incarico, nel 1979 a 71 anni sentì forte il richiamo delle sue radici, più che naturale ad una certa età. Quindi, cedette alle continue sollecitazioni di ex-partigiani suoi grandi amici, specie dell’ing. Nandino Picco di Villanova, il quale s’impegnava a trovargli un’abitazione e gli assicurava un impiego nel suo ufficio, giusto per non fargli passare il tempo solamente a ricordare, nell’inattività a lui non consona, “l’Impresa” che gli era riuscita meglio, ma che gli aveva anche riservato grandi delusioni. Così, avrebbe maturato anche un po’ di pensione, dal momento che con le sue attività all’estero, durate ventiquattro anni, non aveva accumulato grandi ricchezze: solo quel poco che gli era servito per mantenere agli studi universitari negli U.S.A. i due figli, Giuseppe e Pedro. Alla fine ebbe il sopravvento la nostalgia delle sue amate Valli, specie della sua Valle Pesio, che gli faceva scrivere in una lettera ad un amico, uno dei tanti con i quali corrispondeva abitualmente: “Il nostro sogno era quello di viverci per il resto della vita, ma le vicissitudini umane ci hanno sbandati in terre lontane, lasciandoci solo invidiare i Caduti rimasti lassù, ignari delle delusioni tremende del dopoguerra”. Nel 1987 gli veniva conferita l’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana, per interessamento del sen. Francesco Mazzola di Cuneo. Anche questa volta rifiutò, adducendo gli stessi motivi già espressi per quell’altra. Accettò, invece, di buon grado la nomina a Presidente dell’Associazione Partigiana Ignazio Vian.
Ignazio Vian era un maestro elementare di Venezia, arruolato allo scoppio della guerra nella Guardia di Frontiera. Trovatosi in servizio a Boves l’8 settembre del ’43, il giorno dopo con centocinquanta soldati del suo reparto si rifugiò sul monte Bisalta, deciso a opporsi con le armi ai tedeschi, i quali pochi giorni dopo andarono a intimargli la resa, ma inutilmente. Il 19 aprile essendosi recato a Torino per una missione, cadde nelle mani dei tedeschi e venne incarcerato. Durante la prigionia fu più volte torturato e seviziato per ottenere da lui informazioni sulla Resistenza del Cuneese. Tentò anche il suicidio con il taglio delle vene per paura di parlare. Il suo eroico silenzio gli costò l’impiccagione ad un albero di Corso Vinzaglio e l’esposizione del suo corpo, lasciato appeso per una settimana, in ottemperanza alla “lezione del terrore” prevista dal Codice degli Ostaggi, varato nel 1940. La stessa lezione era già stata data a Boves con la strage ordinata dal maggiore Joakim Peiper, condannato dopo la guerra all’impiccagione, ma poi al carcere fino al 1956 . Il boia di Boves, sotto il nome di Rainer Buschman, visse a Traves in Francia fino al 1976, quando per una sorta di legge del taglione (applicata da non si sa chi o per intervento della dea Nemesi invocata da qualche segreto devoto), morì nel rogo di casa sua, andata in fiamme forse per “autocombustione”, dovuta molto probabilmente al demonio che vi abitava dentro sotto mentite spoglie.
A Piero Cosa, stabilitosi a Villanova con il suo vero nome, non incendiarono la casa, ma neppure il suo ritorno fu celebrato come meritava. Sicuramente festeggiato e onorato dai suoi amici, visse il resto della sua vita quasi nell’anonimato, come se il ricordo delle sue imprese partigiane e la fama di uomo prode, probo e giusto fossero andati anch’essi in fumo nell’incendio della memoria collettiva. Anche la sua presenza alle celebrazioni del 25 aprile rimaneva per lo più nell’ombra e senza voce. Anche gli echi degli osanna della Liberazione e dei suoi applauditi discorsi tenuti a Boves e a Mondovì nel ’46, si erano dissolti nel tempo, il nemico peggiore della memoria e della storia. Per riempire certi vuoti morali, a lui bastava, senza risentimenti, andare ogni tanto ai suoi santuari: Santa Lucia, Certosa e Cimitero dei suoi partigiani. Dopo il ritorno in Patria, per diciasette anni visse non lontano da casa mia, senza che io, distratto non so da cosa, percepissi la sua presenza assente. Forse fu anche colpa delle mie orecchie, rese sorde per diversi anni dalle mie vicende personali, ma anche dai troppi clamori, a volte stucchevoli e fuorvianti, sulla Resistenza. Ora, contrariamente a ciò che capita ad una certa età, le mie orecchie si sono riattivate quasi miracolosamente, da quando mi hanno dato da leggere gli Atti del Convegno su Piero Cosa, tenutosi a Chiusa Pesio in occasione del centenario della sua nascita (e di mio padre, che forse mi ha alitato nell’orecchio l’evangelico Effeta, apriti), celebrata anche con l’intitolazione della piazzetta di S. Bartolomeo, il paesetto ai piedi della Certosa, da dove prese avvio la sua avventura resistenziale e dove finì anche quella terrena. Così, poco tempo fa, ho sentito il dovere morale di andarlo a trovare nel piccolo cimitero per fare due “chiacchiere” con lui, sicuro che ci saremmo intesi con le parole del silenzio o con il silenzio delle parole, quelle che scendono nelle abissali profondità del cuore e superano gli spazi siderali dell’anima. Gli ho chiesto alcuni chiarimenti, gli ho raccontato fatti che forse lui non ha conosciuto nella prima vita, gli ho fatto tante domande, alcune forse anche un po’ indiscrete, perché si è stretto nel suo abituale riserbo. Non ha fatto recriminazioni, non ha messo sotto accusa nessuno, non mi ha fatto l’elenco di tutte le sue imprese, né ha recitato la parte del miles gloriosus. Non ho mancato di chiedergli se, per caso, era stato lui a intimare al partigiano Poma di mettere giù la pistola che teneva puntata alla tempia di quella ragazza di Norea, sospettata di essere una spia. Gli ho chiesto anche se sapeva quale santo (partigiano) era intervenuto a salvare mio zio Fedele al posto di blocco di Miroglio. Gli ho chiesto, per pura curiosità, se per caso era passato qualche volta anche lui a casa nostra per farsi aggiustare da mio padre gli scarponi logorati dal continuo andare da una valle all’altra delle nostre montagne, mentre un bambino di quattro anni piantava anche lui bullette sul pavimento in legno, dando fastidio agli ascoltatori di Radio Londra, che, già disturbata dalle interferenze dei sabotatori, era disturbata ancora di più dai suoi strilli forsennati, appena qualcuno si azzardava a togliergli di mano il martello da calzolaio.
Davanti al suo “cenere muto”, ho voluto anche raccontargli, se mai ce ne fosse stato bisogno, due episodi, che la nonna materna Margherita mi aveva riferito, risalenti al ’44 e che con più dovizia di particolari e con più precisione sono stati sicuramente registrati sul grande libro intitolato Tutte le vicende e tutta la verità sulla Resistenza. Opera che solo il Grande Editore può aver pubblicato da tempo, senza aver ricevuto smentite, né suscitato polemiche tra i suoi lettori, ormai depurati da ogni scoria terrena.
1° episodio. Molte case di Prea rimanevano vuote durante l’estate, perché i padroni erano saliti ai tèc, cioè alle malghe per il pascolo di montagna e l’unica fienagione. Da alcuni anni la nonna materna non saliva più al suo, perché aveva venduto le poche vaccherelle e ceduto al figlio il casolare di San Grato, dato poi alle fiamme dai tedeschi nel tristissimo dicembre del ’44. Alla sera, quindi, era solita venire a casa nostra a fare la viò, cioè a fare veglia. Rimaneva fino a tarda ora a rammendare o a filare, quando la nostra famiglia era ancora tutta intera e relativamente felice, per quanto lo permettevano i tempi. Ritornata a casa, la trovò occupata da alcuni giovani partigiani, che dormivano così profondamente che non osò svegliarli per andare ad occupare legittimamente il suo letto vedovile. Riaccostò l’uscio con semplice clac (come lo aveva lasciato) e andò a dormire sul fienile della stalla del Prarèt, dove teneva ancora quattro caprette per il latte da dare due volte al giorno ai suoi quattro nipotini.
Quando la nonna mi raccontò l’episodio, non era per nulla risentita, anzi sorrideva soddisfatta, come può esserlo una mamma quando vede i figlioletti dormire tranquilli e cerca di evitare anche i più piccoli rumori per non svegliarli.
2° episodio. Zio Dreìn, cognato di nonna Margherita, un mattina ebbe una brutta sorpresa. Appena entrato nella stalla a dunò ghia, cioè a rigovernare le vacche, vide che mancava Bela, una giovane manza che meritava veramente il nome che portava. Era stata “prelevata irregolarmente” di notte senza il rilascio del regolare buono di requisizione rilasciato al proprietario. I sospetti caddero su un certo partigiano della piana monregalese, che aveva la nomea di non accontentarsi di qualche gallinella in libera uscita, abbattuta non tanto per esercitare la mira, quanto per esigenze di “vitale importanza” per la resistenza in vita. Zio Dreìn conosceva il paese del lestofante, ma anche la professione del padre. A notte inoltrata era già in quel paese alla ricerca della stalla dove la sua Bela poteva alloggiare, forse solo temporaneamente in attesa di una probabile esecuzione capitale.Era quindi una questione di vita o di morte soprattutto per lei, ma anche guai grossi per lui. Fece il suo nome a bassa voce alla porta di diverse stalle. Finalmente ad una di esse la Bela rispose, anch’essa sommessamente, come d’intesa. Lo zio, senza farsi troppi scrupoli, entrò, sicuramente l’accarezzò, magari anche la baciò in mezzo alla fronte, poi la slegò. Ricevuta, penso, una riconoscente leccata da fargli volar via anche la calota, le mise al collo un’inutile cavezza e la riportò alla sua stalla, passando per vie traverse, che solo lui conosceva, così da evitare il posto di blocco dei partigiani all’entrata di Prea e per non dover dare tante spiegazioni su quel suo “furto” fatto in piena notte, con il coprifuoco in atto, ma con la coscienza tranquilla. Solo nel dopoguerra zio Dreìn poté raccontare in tutta libertà la sua avventura notturna, la sua “resistenza” ai soprusi. Da tutti fu considerato un eroe.
Senza augurargli “buona eternità”(certamente se l’era già assicurata in vita), con un discreto Requiem mentalesalutai il “cenere muto” di Piero Cosa, deceduto a Villanova il 5 novembre 1996 all’età di 88 anni e sepolto nel cimitero della piccola frazione di Chiusa Pesio, da cui provenivano le radici della madre e della moglie. Morì ricco solo di buone opere, ma “povero di quel denaro di cui non volle mai essere schiavo, prodigo di amicizia e rettitudine”, come ha scritto di lui don Aldo Benevelli, che prima di diventare partigiano, ha saputo mettere in pratica, la settima e la più difficile delle Opere di Misericordia Corporali: seppellire i morti. Infatti, fu tra quelli che andarono a recuperare i ventitre corpi straziati del primo eccidio di Boves, tra i quali quello del viceparroco don Mario Ghibaudo, il cui sangue di martire ha sicuramente contribuito a far sorgere o a rafforzare la chiamata al sacerdozio del ragazzo di Azione Cattolica e a far avviare il processo di beatificazione del giovane prete, pugnalato in più parti del corpo in spregio di quella veste nera che indossava e sotto la quale nascondeva il Giudice che avrebbe condannato in eterno gli esecutori dell’eccidio.
Se dal sangue dei martiri può solo nascere il bene, il bene può anche nascere da qualsiasi atto di umanità, a volte anche insignificante. Quello che Piero Cosa fece in vita non fu “cosa” da poco e merita di essere ricordato e celebrato anche più degnamente di quanto io possa aver fatto da modesto artigiano della parola (soddisfatto solo quanto può esserlo un muratore quando trova la pietra giusta nella costruzione di un muro a secco), perché fu un uomo che non si lasciò mai vincere dall’odio, che fomenta la guerra, ma si lasciò vincere sempre e solo dalla pietà, che la spegne. Merita di essere ricordato e celebrato, perché in pace e in guerra fu sempre animato dallo stesso spirito missionario che aveva spinto dei fratelli ed una sorella ad entrare nell’Ordine Religioso che alla Certosa aveva e ha tuttora il suo centro di spiritualità e di formazione dei suoi “militi”, impegnati sempre nel bene da fare agli altri, come lui ha sempre fatto. Il partigiano Piero Cosa, il più ribelle dei “ribelli per amore” della libertà e della giustizia (due bisogni primordiali della natura umana, da soddisfare quanto il cibo e l’aria sono necessari per vivere), non visse una semplice esistenza, trascorsa nell’indifferenza e nelle comodità. Fu un vero Bastiàn Cuntrari, cioè fu sempre contrario al male e sempre fautore di buone opere. Portò a termine con onore e coraggio la sua “Buona Battaglia”, quella stessa portata a temine da un Cittadino ebreo-romano di Tarso, decapitato perché “partigiano” di un Tale che finì non su uno, ma su due “pali” incrociati, perché fra le tante cose che predicava, erano già comprese la giustizia e la libertà, per le quali l’uomo ha sempre fatto rivolte, rivoluzioni e lotte di liberazione per ottenerle. 26 febbraio 2025